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Vanni Capoccia: “Tornando in Galleria a Perugia”

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, l’intervento di Vanni Capoccia riguardo la Galleria Nazionale dell’Umbria che dopo un anno di lavori e cinque milioni di investimenti, ha riaperto le sue porte il primo luglio scorso. 

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Tornando in Galleria a Perugia

di Vanni Capoccia

A qualche giorno di distanza dalla giornata di riapertura della Galleria Nazionale dell’Umbria, con la mente ancora sgombra da giudizi e riflessioni di altri, sono tornato in Pinacoteca facendo quello che normalmente faccio in un museo o in una chiesa: entro, osservo, immagino e penso. 

Pensieri, emozioni, curiosità e studio credo siano le cose principali che dovrebbe suscitare l’arte. E di fronte al grande magnifico crocefisso del maestro di San Francesco che volutamente si mostra già prima che si entri nella sala sprigionando una grande forza di suggestione e seduzione ho pensato che fosse ciò che cercavano quando hanno deciso di collocarlo in quella posizione.

Segno della volontà di colpire gli occhi del visitatore con una costante attenzione alla disposizione delle opere che in tutto il piano superiore si possono osservare come mai prima: nella Sala dei Decemviri, ad esempio, gli affreschi del Bonfigli mi sono sembrati così nitidi al punto che mi sono chiesto se li avessero restaurati e azzeccata è l’idea delle vetrate di autori contemporanei alle finestre.

Il rischio della suggestione è che dagli occhi l’immagine si fermi lì o arrivi diretta e fredda al cervello senza transitare per il cuore. Un passaggio fondamentale quando si osserva un’opera d’arte, specie in un ambiente in cui ha smesso d’essere oggetto di devozione perché se in una chiesa si vede chi prega, chi chiede una grazia, chi cerca consolazione in un museo questo non avviene più. Perciò è importante che l’immagine dopo lo sguardo arrivi al sentimento; non per contrapporre le ragioni del cuore e del sentimento a quelle della ragione, ma per scaldare i pensieri prima che arrivino ad essa e fare del sentimento la forza della ragione. A questo credo debba servire un museo che non sia una semplice esposizione: mettere insieme sguardo, affettività, pensiero in modo che vicendevolmente si sostengano e rafforzino, convincano cognitivamente anche per una sorta di identificazione sentimentale che, come ha scritto Walter Cremonte a proposito di poesia, è “la via più certa e più capace di durare”.

Mi è sembrato giusto aver inserito nel museo l’arte contemporanea, a mio parere dimostra che tutta l’arte è contemporanea finché parla ai contemporanei come fanno il Cristo Deposto da Roncione, il catrame di Burri e tutto ciò che c’è tra di loro.

Così com’è felice l’idea di seminare nel percorso preziosi manufatti; prima era come non ci fossero ora tovaglie perugine, avori, croci e calici d’oro danno e prendono luce.

Addirittura straordinaria la possibilità data alla città e al paesaggio d’entrare nel museo. C’è, stanza dopo stanza, uno scambio costante tra Pinacoteca e quello che Bellosi ha definito il “museo diffuso” che non ricordo d’aver percepito in altri musei dove magari si vede il Canal Grande di Venezia, la cupola del Brunelleschi di Firenze, le cupole romane. Viene una gran voglia d’aprire le finestre della Galleria e urlare a quadri, gonfaloni, sculture, calici “volate via, siete liberi, tornate a casa vostra nelle vostre chiese”: sarebbe il “Miracolo a Perugia”; poetico, bello e giusto come quello milanese di Zavattini e De Sica.

Lo scambio città museo è, in primo luogo, una peculiarità italiana. Dimostra che la storia dell’arte del nostro Paese non è data solo da grandi opere e grandi nomi, che le opere si arricchiscono stando vicine l’una all’altra mischiandosi non solo cronologicamente ma anche sentimentalmente. Ora un museo non deve sembrare un magazzino confuso, ma mi sembra che nell’attuale disposizione l’armonia cercata non sarebbe turbata da qualche opera in più e da qualche imprevisto accostamento che avrei rischiato se non altro perché i “fuoriclasse” hanno sempre bisogno di ricordare che non conta solo l’io ma il noi (nel calcio i numeri 10 sarebbero niente senza numeri 8 che corrano per loro).

Per cui mi sembra uno spreco non consentire ai futuri visitatori di vedere la Madonna di Meo da Siena, l’opera più bella di quel professionista della pittura.

E se questa Madonna incanta la Pietà del Boccati strazia con quel corpo di Gesù in grembo alla Madre che pare ancora preda degli spasmi della morte, la Madonna che strabuzza gli occhi dal dolore, la disperazione degli altri partecipanti a quella compassione. È un gonfalone consunto dalle processioni, dalle suppliche, dalle mani che l’hanno toccato, tragico capolavoro consumato dalla fede e dal tempo che non può stare in un deposito a disposizione degli esperti ma va visto per ricordare la caducità dell’arte, quello che succedeva nei vicoli e strade di Perugia che si vedono dalle finestre, rompere quel senso di impeccabilità che la Galleria dà. 

Sacrificato è Agostino di Duccio presente solo con la sua pierfrancescana Madonna col Bambino solitaria e persa nella loggia.

Mi hanno detto che ne aggiungeranno un altro spero sia così e facciano qualcosa di più: chi più di lui con le sue opere nei dipinti del Bonfigli, quelle sparse in città e nel museo rappresenta al meglio lo scambio città museo ricercato?

Non ho visto la Flagellazione bronzea di Francesco di Giorgio Martini con uno stiacciato di città ideale che fa pensare al suo artefice come possibile autore di una delle tre Città ideali. Ha lo strano destino d’essere più facilmente vista in giro per mostre pierfrancescane urbinati che a Perugia al punto che mi sono chiesto, e spero sia così, se l’assenza non fosse momentanea a causa delle celebrazioni montefeltresche.

Per finire la cinquecentesca “cassaforte del Comune”. È un capolavoro? No. Ma l’hanno utilizzata gli impiegati del Comune fino a meno di un secolo fa quando è andata in pensione in Pinacoteca. Rimetterla dove stava sarebbe un riconoscimento per il lungo lavoro svolto al servizio della città e verso il Comune stesso la cui Pinacoteca civica è diventata la Galleria nazionale dell’Umbria, l’unica in un Palazzo Comunale.

Poi c’è il piano sottostante, come al solito ho pensato che fosse metafora della decadenza di una città, meglio di quello che hanno fatto penso fosse difficile fare, dispiace per il Pintoricchio la cui notevole Pala di Santa Maria dei Fossi meriterebbe di salire al piano superiore.

Foto di copertina: Giancarlo Belfiore

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