Riceviamo e volentieri pubblichiamo, inserendolo nella nostra rubrica Dentro lo Stivale, questo articolo di Vanni Capoccia sulla mostra a Palazzo Strozzi a Firenze di Helen Frankenthaler inaugurata lo scorso settembre e che sarà visitabile fino al 26 gennaio.
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Helen Frankenthaler: a Palazzo Strozzi un’America che non esiste più
di Vanni Capoccia
Helen Frankenthaler figlia di una colta famiglia dell’alta borghesia di New York si è mossa a proprio agio nella realtà artistica newyorkese. Protagonista dell’espressionismo astratto statunitense ha intessuto rapporti importanti con figure fondamentali dell’arte americana de dopoguerra tra i quali Morris Louis, Robert Motherwell, Jackson Pollock, Mark Rothko collezionando loro opere che esponeva nella sua casa di Manhattan nella quale, con il suo ex marito Robert Motherwell organizzava feste che riunivano l’elite culturale e il “bel mondo” del su tempo.
Forse è per questo che in lei non si percepisce quel tormento che nasce in oscurità interiori a differenza di Jackson Pollock la cui arte esplode nell’etilico gesto con il quale getta il colore nella tela e di Mark Rothko nelle cui larghe distese di colore monocromo si percepiscono lunghe faticose meditazioni nate da inquietudini e ossessioni. Frankenthaler sembra aver preso un po’ da uno e un po’ dall’altro lasciando tutto in superficie dando con i suoi quadri l’impressione di non essere di quegli artisti che dipingono il senso del tragico ma un’artista che non si svela totalmente e con i suoi piatti, puri e luminosi colori trasmette una sorta di quiete.
Morris Louis l’ha definita “un ponte tra Pollock e ciò che era possibile”; e lei nel tentativo di cercare nuove relazioni tra forma e colore mette al mondo un mondo possibile grazie anche alla sua originale tecnica con la quale il colore impregnava la tela non trattata originando estesi e sereni campi di colore dalle trasparenze fluttuanti simili a quelle dell’acquarello che si spandevano senza regole al punto che, come dice Helen Frankenthaler in un filmato, portava a termine i suoi quadri anche quando non le piacevano o non era convinta di quello che stava facendo. Qualcuno li definì “stracci sporchi di colore”, definizione tranciante ma d’altronde anche lei non fu tenera con l’esplicite fotografie di Robert Mapplethorpe intimando “Alzate il livello. Abbiamo bisogno di più intenditori di cultura“.
Una parte della ricerca artistica, mai scontata, mai ovvia, di Helen Frankenthaler, ,compresi alcuni suoi capolavori più alcune opere di artisti con i quali la sua arte si è incontrata esposti a Firenze fino al 26 gennaio nella mostra a cura di Douglas Dreishpoon “Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole” organizzata dalla Fondazione Palazzo Strozzi in collaborazione con la Helen Frankenthaler Foundation. Ripercorre la sua produzione dagli anni ’50 agli anni ’90 in una una città che pare il luogo adatto per quella specie di informale “pittura di luce” cui fanno pensare le ampie stesure di colore di Frankenthaler misteriose per quanto manifeste che non seguono le traiettorie del caso o le profondità oscure dell’animo ma cercano nuove maniere di fare arte e una loro armonia molto americana che mi hanno fatto pensare che la sua sia un’informale pop art riuscendo, anche nella città del Rinascimento, a restituire sprazzi di luce e chiarori atmosferici di un’America che non esiste più.
Foto di copertina tratta da: Finestre sull’arte