Urbanità ridotte e Sistema policentrico umbro secondo l’architetto Stefano Gatti

PERUGIA Dall’Agenzia Umbra Ricerche, riceviamo e pubblichiamo questo intervento dell’architetto Stefano Gatti su policentricità sviluppo urbano dal titolo “Urbanità ridotte e Sistema policentrico umbro”. “L’espansione urbana degli ultimi decenni – scrive l’architetto Gatti – ha creato, anche in Umbria, un paradosso che consiste nella limitazione delle funzioni urbane degli insediamenti che questa stessa ha generato: il consumo di suolo ha creato sistemi pseudo urbani privi delle caratteristiche che sono proprie di un tessuto inteso come luogo degli scambi socioeconomici e dell’abitare.

Ha dominato, come obiettivo di sviluppo prevalente, il target di vendita dettato dal mercato inficiando, così, l’elaborazione di criteri e modi insediativi mirati alla valorizzazione dell’abitare e dei suoi luoghi e non solamente al loro sfruttamento; in estrema sintesi: si è persa la capacità di creare reddito attuando iniziative di pianificazione e sviluppo urbano che generino benessere sociale inteso come migliore qualità della vita, minimo consumo di risorse e socialità degli abitanti.

Solo tramite la ricerca e lo sviluppo di un “modus costruendi” adeguato si possono elaborare questi aspetti precipui e basilari; un modus che dovrebbe porsi come riferimento per le attività pianificatorie ed edificatorie nei vari processi gestiti da Amministrazioni, progettisti e sviluppatori.

Si prospettano vari itinerari, concettuali e metodologici, rispetto alle connessioni della rete politico-economica, nonché gestionale-operativa, che dovrebbero sottendere la pianificazione alla media scala nonché gli interventi che l’attualizzano fisicamente sul territorio.

Il fenomeno più evidente a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni è stato la disgregazione della storica policentricità dell’insediamento umbro, intesa come vera e propria sinapsi socioeconomica, che è stata mano a mano sostituita – quando non alterata e/o abbandonata – da interventi inadeguati che non sono riusciti a riprodurre i livelli di qualità preesistenti né, tanto meno, a proporne di nuovi altrettanto validi.

Da un lato, viene a mancare la dimensione retorico-argomentativa tipica di ogni piano, propedeutica alla definizione e alla condivisione delle scelte relative alle politiche che ci si propone di intraprendere; dall’altro, appare in larga parte assente il ruolo proattivo dell’attore pubblico, ridotto a mero controllore della coerenza degli interventi con quanto sancito [1] ed anche, soprattutto, appare evidente come il preteso carattere policentrico della struttura urbana umbra costituisca oggi una rappresentazione priva di fondamento se comparata anche solo alle due Regioni con le quali ha relazioni storiche, culturali e funzionali più solide. Emerge, di conseguenza, la discrasia tra un apparato retorico che continua a evocare l’immagine del policentrismo come carattere identitario da valorizzare e la realtà che si è venuta consolidando dal dopoguerra ad oggi. La lettura dei dati rileva l’inefficacia degli strumenti messi in campo dalle politiche regionali, finalizzate al perseguimento di un obiettivo sistematicamente riproposto come prioritario negli enunciati eppur così disatteso dai risultati conseguiti [2].

È venuto a mancare l’inserimento di quei meccanismi di riqualificazione mirati al benessere collettivo degli abitanti presenti, in varie misure e nelle diverse forme, nei vari centri umbri sino alla metà del secolo scorso.

L’attività di pianificazione e di progettazione dovrebbe quindi tendere alla ricerca di centralità diffuse (dotate di grande autonomia socio-relazionale) che creino e/o recuperino le connotazioni precipue dei luoghi mirando alla definizione di un continuum urbano che superi e riqualifichi l’attuale discontinuità tra il costruito e il non costruito (le aree di risulta, le aree dismesse ecc.) e che dialoghi con la campagna, che stabilisca quindi un rapporto fluido dell’abitare con il territorio della produzione agricola; riconsiderare, pertanto, le peculiarità dell’inurbamento.

È corretto, soprattutto per una tutela paesaggistica, evitare connessioni fisiche tra i diversi centri ma, in realtà, nelle zone con un minimo di tensione abitativa, abbiamo assistito ad un proliferare di ogni sorta di oggetti edilizi che ha disatteso e vanificato gli assunti teorici e confermato, affatto, come i piani e gli interventi conseguenti siano ancora poggiati su inerzie obsolete assurte a slogan, senza essere oggetto di valutazione e verifica [3].

Queste situazioni diffuse indicano quanto sia indispensabile la rottura con gli schemi tipici della pianificazione e dello sviluppo immobiliare e andrebbero prese come riferimento per studiare e progettare un’articolazione della complessità servizi/residenza/funzioni produttive tale da incrementare le qualità del territorio coinvolto, ripristinare e salvaguardare le sue caratteristiche e, non ultimo, generare i congrui flussi di capitale (pubblico, privato e pubblico/privato) per dare il necessario supporto agli interventi.

Andrebbero abbandonate le logiche meramente speculative derivate dalle dinamiche insediative degli anni ’60/70 ed oltre le cui tracce, tanto evidenti quanto laceranti, condizionano fortemente eventuali processi pianificatori alla piccola scala così come necessiterebbe, per poter qualificare la stratificazione del territorio, abbandonare del tutto quella visione vernacolare del costruito/costruibile e innescare, quindi, anche un processo di rigenerazione culturale. Processo, questo, sicuramente complesso, perché impone la guarigione da quella sindrome del Mulino Bianco da cui l’Umbria è afflitta da ormai troppo tempo. D’altra parte, per prendere atto del difficile rapporto instaurato dall’Umbria con la cultura contemporanea in genere, e con l’architettura contemporanea in particolare, è sufficiente percorrere i circa 30 chilometri della superstrada che collega Perugia a Foligno per rendersi conto che gli esempi schiettamente contemporanei si contano sulle dita di una mano [4].

Piani e progetti così concepiti darebbero un forte supporto al recupero economico e sociale del territorio, ma la loro attuazione è possibile invertendo i presupposti che sostengono la progettualità odierna: “perché e come” anziché “quindi”; in estrema sintesi: le scelte insediative dovrebbero avere alla base una reale e profonda connessione con i flussi economici e di sviluppo (il perché e il come) e non essere attuate con il solo obiettivo del profitto che ha creato uno stato de quo che tutti subiamo.

È stato ed è tuttora necessario rimediare a questo stato di fatto, nelle varie situazioni pianificatorie che si sono presentate e in quelle future, che obbliga la ricerca di soluzioni fortemente condizionate o addirittura del tutto consequenziali (il quindi) a detti fenomeni.

È quindi opportuno determinare i presupposti di base dello sviluppo e della riqualificazione urbana elaborando una visione unitaria dei “nuclei sparsi”, sempre meno sparsi e sempre più nuclei, che li trasformi in degli snodi, veri e propri “neuroni di connessione” delle frange stracciate delle città al fine di poter creare sistemi locali interconnessi ai centri principali dell’Umbria per adeguare la struttura insediativa regionale a questa fase economica che è centrata sulle città.

Si può considerare questa necessità come cogente dato che nelle economie avanzate è emersa una nuova centralità economica delle (grandi) città. L’innovazione tecnologica, la formazione di nuove idee e imprese, lo sviluppo dei servizi avanzati, la concentrazione di capitale umano sono oggi fenomeni essenzialmente urbani, in quanto si nutrono dei vantaggi offerti dall’ambiente urbano, ovverosia dalla densità e dalla prossimità fisica degli agenti economici. È nelle città che è possibile condividere servizi specializzati e infrastrutture, avere accesso a una grande varietà di input produttivi e professionali, partecipare a uno scambio continuo di informazioni e conoscenze [5].

L’evidenza di questa necessità emerge anche dalla considerazione dello stato dei centri minori umbri, anche i più noti e celebrati, che versano in condizioni di notevole crisi spesso non considerata dalla retorica celebrativa di una presunta qualità della vita che in realtà si riduce ad una falsa ed errata visione turistico-vernacolare dei territori; una presunta qualità della vita erroneamente intesa come astrazione, rifiuto, fuga da situazioni urbane compromesse che possa ritrovarsi, quindi, unicamente nella dimensione dei borghi.

È vero, invece, l’esatto contrario, dato che sono la dotazione di infrastrutture fisiche, di insediamenti innovativi, di servizi qualificati, di risorse scientifiche e tecnologiche; sono la facilità di accesso al credito, la qualità del sistema formativo, il know how diffuso, ma anche sistemi di welfare efficienti, la presenza di infrastrutture culturali, ambientali, ricreative e di risorse umane qualificate [6] a costituire l’ossatura di un sistema insediativo,  che consenta di ottenere, in modo diffuso, una buona qualità della vita.

Peculiarità, queste, riferibili solo ad un sistema urbano, ed è per questo motivo che sarebbe opportuno elaborare una nuova visione di policentrismo che miri ad innescare un processo di connessione territoriale dei nuclei minori atto a sviluppare e ad accogliere quelle connotazioni urbane indispensabili per l’attrazione degli investimenti e delle professionalità tipiche della città.

Oggi i processi attrattivi hanno subito un vero e proprio ribaltamento e se ieri il benessere del territorio dipendeva dalla presenza delle imprese, oggi è il benessere dell’impresa a dipendere dai caratteri del territorio; di conseguenza la competitività non è più solo tra singole imprese ma anche tra territori [7].

Occorre quindi generare un sistema di “urbanità ridotte” che nel suo complesso di connessioni e relazioni fisiche offra tutti i vantaggi imprescindibili dell’ambiente urbano”.

Redazione Vivo Umbria: