“Stiamo rimpiazzando il selvaggio con l’addomesticato. Metà della terra fertile del pianeta è ora terra coltivata. Il 70% degli uccelli del pianeta sono domestici. La grande maggioranza, polli. Noi contiamo per più di 1/3 del peso dei mammiferi della Terra. Un altro 60% sono animali allevati per nutrirci. Il resto, dai topi alle balene, sono solo il 4%” – Sir David Attenborough
PERUGIA – Esistono ancora nel mondo aree completamente selvagge dove gli animali possono condurre indisturbati la loro vita? Lo stato del pianeta così come lo conosciamo e lo immaginiamo è ormai compromesso? L’essere umano può ancora considerarsi parte della natura? Un rapporto tra uomo e animali fuori dall’utilitarismo è possibile?
Queste e altre domande sono alla base di “The Missing Link”, progetto documentaristico a cura di Andrea Boccini e Alessandra Monti che indaga il complesso e delicato rapporto che c’è tra l’uomo e gli animali selvatici. Uno sguardo profondo che spinge a riflettere e che parte dalla teoria evoluzionistica dell’anello mancante per esplorare angoli di mondo cercando ciò che resta del legame evolutivo che unisce animali umani e non umani. Un viaggio per immagini “lungo i confini tra riserve naturali e aree fortemente antropizzate, dove “civiltà” umana e natura “selvaggia” collidono”. Attraversando tre continenti, dall’Africa all’India, dal sud est asiatico fino all’Italia, la mostra punta l’attenzione su contatti e contrasti, per scoprire che “l’anello si è dimostrato essere mancante, un’eco lontana, una memoria sbiadita” e mostra una situazione complessa dalle mille sfaccettature.
Ora che la mostra fotografica è quasi giunta al suo termine, abbiamo raggiunto l’occhio e il cuore dietro le immagini, Andrea Boccini, fotografo documentarista e artista visivo, per riflettere insieme a lui su questi temi, conoscere la nascita del progetto e scoprire come la mostra è stata accolta nella nostra città.
“Il progetto è nato da una doppia motivazione – racconta Boccini – la prima è che sentivamo l’esigenza di entrare più a stretto contatto con quei luoghi rimasti ancora più lontani dall’uomo e dalla civiltà urbana, laddove il mondo animale era, nel nostro immaginario, dominante.
L’altra è stata che eravamo entrati in un momento di maggiore consapevolezza di quello che stava succedendo in termini di biodiversità. Più ci documentavamo, più diventava evidente che i numeri di questo processo di estinzione aumentavano, la perdita di biodiversità, di habitat e di ecosistemi naturali antichi si perdeva a velocità sempre maggiore. Queste due cose si sono incontrate nell’esigenza di spingerci verso queste aree prima che divenissero solo un ricordo.
Abbiamo quindi cercato progetti di volontariato con cui potevamo anche contribuire direttamente finanziando realtà piccole e a gestione locale di nativi e indigeni. Con loro abbiamo iniziato a lavorare sul campo documentando tutto quello che è l’aspetto dell’interazione dove c’è uno sviluppo e un avanzamento umano, che sia esterno, locale, per turismo o per altri settori economici, nelle zone di confine tra riserve naturali e aree fortemente antropizzate, dove “civiltà” umana e natura “selvaggia” si incontrano e si scontrano, per comprendere il fenomeno della sesta estinzione di massa da vicino, ed imparare diversi metodi di conservazione e coesistenza. Il centro del racconto è diventato quindi tutto quello che sta intorno ed in mezzo al processo di estinzione e il semplice atto di conservazione.
Prima di partire avevamo l’idea romantica che tra queste popolazioni indigene più antiche ci fosse una connessione molto forte, quasi di amicizia, con gli animali. In realtà ci siamo accorti che è tutto molto più complicato, principalmente perché gli stessi indigeni in molti casi hanno perso il controllo e la gestione di tante aree. I colonizzatori prima e i governi poi, hanno cominciato a imporre una serie di istanze, di limiti fra le popolazioni, il territorio e molte specie protette; in molti casi proprio spacchi netti e quindi nessuna forma di contatto, di condivisone di spazi”.
E’ il caso ad esempio dell’Uganda, dove per secoli gli indigeni Batwa, una popolazione che risiede nella foresta di Bwindi, hanno convissuto in armonia e rispetto con i gorilla di montagna: “Questo profondo legame è stato reciso negli anni ’90, quando i coloni hanno spinto i gorilla di montagna sull’orlo dell’estinzione, costringendo alla chiusura del parco e all’allontanamento dei Batwa dalla foresta. Esclusi dalla loro terra e dalla conservazione, la memoria della natura incontaminata e la sua conoscenza sbiadisce con ogni generazione che passa. Un processo lento di disconnessione dalla natura selvatica chiamato “Amnesia ambientale generazionale”. Per i più giovani, i gorilla esistono solo nelle maschere che scolpiscono, volti che possano mantenere vivi i frammenti non ancora dimenticati della propria identità”.
“Come in molti luoghi abbiamo trovato proprio un’assenza totale di questo legame – prosegue Andrea – in molti casi, al di là dei confini stessi, troviamo una mercificazione che è forse l’unica forma di contatto rimasta. Cioè, se l’habitat o l’animale non diventano una fonte di reddito costante, principalmente per le autorità governative o gli investitori, in molti casi l’alternativa è la sparizione completa di quell’ecosistema o di quegli animali.”
Esemplificativo in tal senso è il destino del leone, da incontrastato re della foresta a schiavo del sistema, il leone in ginocchio ritratto in una delle foto più toccanti della mostra si trova nello Zimbabwe ed è “uno dei 200 leoni adulti allevati per fermarne l’estinzione. Questo genere di conservazione è un vero business. Riempiti i recinti, alcuni adulti vengono ceduti a strutture più spaziose e con più turisti. Questi leoni sono attrazioni turistiche in pensione, non più adatte al contatto diretto e quindi rivendute. Il commercio dei grandi felini è uno dei più redditizi. […] In un mondo governato dal denaro, la loro migliore possibilità di sopravvivenza è essere un buon investimento: controllabile, allevabile, confezionabile e vendibile. Così l’ ex re della savana diviene merce, uno schiavo, ed il suo regno uno stretto recinto”.
Senza mai mostrare violenza ma attraverso immagini che colpiscono dritte al cuore, le foto immortalano un mondo ormai al limite dove i tralicci dei fili elettrici rivaleggiano in altezza con le giraffe che vi camminano attraverso e gli elefanti, creature nate per percorrere chilometri, sono costretti in micro aree, schiacciati tra una proprietà privata e l’altra, obbligati a competere e a perdere contro gli esseri umani per procurarsi cibo e acqua. Nello Zimbabwe, paese che conta la seconda popolazione mondiale di elefanti “il governo ha deciso di ridurne il numero con l’abbattimento di massa per “sovrappopolazione”. Le popolazioni di elefanti si sono ridotte del 98% in soli 500 anni, e sono ormai in via di estinzione”.
O Sudan, l’ultimo maschio di rinoceronte bianco del nord in Kenia, morto nel 2018 a 45 anni di cui 43 trascorsi in cattività: “Dal 2009 al 2018 è tornato nel suo habitat, forse tardi, ma comunque in un ambiente tutt’altro che naturale: 9 anni circondato e sorvegliato h24, 7 giorni su 7, da guardie armate, come nel caveau di una banca. Il suo legame più stretto era con gli umani, l’animale che l’ha spinto verso l’estinzione. Così appare la fine di una specie: un evento silenzioso, nascosto alla vista, fatto di solitudine pura, di isolamento”.
Un progetto che mira a scuotere le coscienze e che non può e non deve lasciare indifferenti: “La reazione circa il nostro lavoro è stata sorprendente – conclude Boccini – il contesto dove si è svolta è un contesto urbano, in una zona del centro Italia molto affezionata a determinate culture che hanno a che fare molto con il consumo di carne, l’allevamento, la caccia e ormai a un determinato tipo di agricoltura. Un ambiente che non vedeva più certa fauna selvatica da parecchi anni. Lo immaginavo come un argomento che avrebbe forse toccato qualche corda di troppo e creato quindi una certa distanza. Invece, ho notato parecchia vicinanza e comprensione, molto coinvolgimento, una cosa che non speravo. Ho sentito molti commenti incoraggianti di persone che percepiscono questo superamento di ogni limite da parte nostra e l’urgenza di un cambiamento. C’è sì un pessimismo latente che si traduce spesso in un’assenza di speranza ma non nelle generazioni più giovani che sono quelle più proiettate alla ricerca di un “come”. Durante il dibattito che abbiamo fatto all’inaugurazione dell’evento, non c’era questa paura del selvatico di ritorno, anche nei confronti di animali come lupi o cinghiali, animali che spesso sento percepiti da queste parti come una gran minaccia. Ho sentito il bisogno della gente di parlarne, di capirne di più, proprio perché c’è la volontà di includere nelle proprie vite anche questi animali. E questa cosa mi riempie di speranza anche se tra chi ha partecipato al dibattito non c’erano rappresentanti di categoria del mondo economico naturale come agricoltori, allevatori o cacciatori, ma ci stiamo lavorando. Uno dei prossimi progetti è proprio portare questi dibattiti aperti a un raggio più ampio di opinioni, per cominciare dei confronti più articolati e profondi.”
La mostra, attualmente visitabile nei locali dell’ex chiesa di Santa Maria della Misericordia a Perugia, rimarrà aperta fino al 31 luglio, tutti i giorni dalle 10 alle 20 con ingresso gratuito.
Per informazioni: https://www.instagram.com/the_missing_link_doc/
Foto e testi tra virgolette per gentile concessione di Andrea Boccini.