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Su Rai Play il film-opera “Adriana Lecouvreur” diretta da Asher Fisch: tutti gli spazi del teatro diventano scena

Andata in onda per la prima volta su Rai 5 il 10 marzo, ma tutt’ora visibile su Rai Play, è l’Adriana Lecouvreur diretta da Asher Fisch nella nuova produzione del Teatro Comunale di Bologna. La storia dell’attrice francese, musicata da Francesco Cilea e verseggiata da Arturo Colautti, viene restituita nella veste di film-opera interamente realizzato negli spazi dell’istituzione felsinea. 

Il libretto, basato sul dramma omonimo di Eugène Scribe e Ernest Legouvé, racconta le vicende di un’attrice della Comédie Française realmente vissuta, appunto Adriana, dei suoi travagli amorosi con il Conte di Sassonia e della rivalità con la principessa di Bouillon. Se l’opera originale è ambientata nel 1730 a Parigi, la scelta registica di Rosetta Cucchi è quella di ricostruire per ogni atto una diversa cornice temporale: 1730, 1830, 1930 e, infine, 1968. Quello che potrebbe sembrare un semplice e anche gradevole esercizio stilistico, nasconde un fine perché. Infatti Adriana si rincarna, idealmente, in ogni atto – eccetto per il primo dove è lei stessa – in attrici diverse: Sarah Bernhardt che nell’Ottocento ha vestito più volte i panni di Adriana nel dramma teatrale, ai Diva film degli anni Trenta liberamente ispirati alla Lecouvreur per concludere a fine anni Sessanta in cui le fattezze della protagonista suggeriscono Catherine Deneuve. Rosetta Cucchi costruisce una suggestiva carrellata temporale in cui restituisce, archeologicamente, l’immaginario della Lecouvreur nella sua potenza femminile ed archetipica che ha continuato a gemmare nel corso dei secoli reincarnandosi, anche con sfuggenti riferimenti, in molte performer e in molti corpi femminili. Viene, però, quasi da chiedersi perché non si sia voluta spingere fino al contemporaneo, all’attuale. 

Non stiamo parlando di uno spettacolo teatrale, conviene ricordarlo sempre, ma di un film-opera in cui, quindi, la presenza del mezzo cinematografico non può fungere solo da occhio dello spettatore – come sarebbe in uno streaming operistico – ma diventa dispositivo registico e drammaturgico. Questo è particolarmente efficace nell’ultimo atto, quando il ricongiungimento tra il Conte ed Adriana avviene solo nel delirio della protagonista e non nella realtà come vorrebbe il libretto. Allora la regia, cinematografica e teatrale, riesce a restituire, con l’ausilio di un sapiente montaggio e di un filtro opaco, da una parte, il desiderio dell’amato e, dall’altra, la cruda realtà in cui a farle compagnia prima della tragica morte è solo il fedele e di lei innamorato Michonnet. Ma oltre questi sprazzi sono lunghissime le sequenze in cui la macchina da presa resta fissa sul palco, accontentandosi di carrellate, primi piani e figure intere, fatta eccezione per alcuni momenti ripresi negli spazi del teatro.

Altro elemento ben utilizzato, infatti, è proprio il Teatro Comunale di Bologna, inserito nel film in molti dei suoi spazi: foyer, gallerie e palchetti. Certamente, se non fossimo nella situazione attuale, potremmo apprezzare il modo in cui è stata utilizzata la struttura, accentuando la metateatralità su cui è concepito l’adattamento, ma da cui parte la stessa opera. Per ora rimane la sensazione di forte nostalgia e tristezza: un meraviglioso scrigno chiuso, il cui interno è visibile solo attraverso una videocamera mentre siamo sdraiati, in pigiama e sorseggiamo una tisana. Sicuramente, quando ci lasceremo questa situazione alle spalle, potremmo apprezzare l’adattamento filmico, ma ora resta il desiderio fortissimo: abitare i teatri con i corpi, non con una macchina da presa. 

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