PERUGIA – A metà serie Raised by Wolves avevamo sollevato alcune perplessità sia nel plot (la storia in sé) sia nella sceneggiatura, rimandando a un giudizio finale a serie finita, cosa avvenuta da pochi giorni. E quindi eccoci qui con un giudizio inappellabile: la serie HBO, prodotta e diretta dal clan Scott (Ridley ha anche diretto le prime due puntate, il figlio Luke alcune altre, ultima inclusa) merita un giudizio negativo piuttosto inappellabile.
Una parte del nostro giudizio riguarda certamente l’implausibilità; ne abbiamo parlato nel commento precedente: sarà pure fantascienza, ma la storia (che riguarda l’autore, Aaron Guzikowski) e la sceneggiatura (che riguarda come viene presentata la storia, i tempi, la composizione scenica e i dialoghi; in questa serie specie lo stesso Guzikowski, che ha firmato anche la terribile puntata finale) sono assai al di sotto del livello accettabile. Quando si parla di fantascienza o di fantasy, ovviamente, la plausibilità è interna alla storia. Lo spettatore, cioè, assume come accettabile che ci siano mostri, astronavi, situazioni non ordinarie, non comparabili con quelle della nostra vita “normale”; prendiamo un caso tipico, l’invasione da parte di extraterrestri (da La guerra dei mondi a Indipendence Day c’è una ricchissima filmografia); noi accettiamo l’idea che alieni cattivi ci invadano, ma non quella che la risposta umana sia assurda, che l’esercito compia azioni difensive demenziali o che i cittadini si comportino da perfetti cretini, a meno che non sia un film parodistico (Balle spaziali, Mars attacks…). Deve vigere una sorta di plausibilità psicologica, sociologica e antropologica, in base alla quale i comportamenti umani, per quanto in una situazione straordinaria, sono quelli che ci attendiamo che siano.
Questa assunzione implicita viene a mancare in Raised by Wolves per il ridicolo, inspiegato e macchiettistico conflitto fra invasati settari e “atei”, rappresentato in una maniera che anche senza specialismi sociologici non può che apparire una grave forzatura, che la sceneggiatura ripropone continuamente nei sui tratti più evidentemente improbabili. E anche il continuo oscillare dei personaggi fra certe posizioni etiche ad altre, fra determinati atteggiamenti e il loro opposto, che alla lunga disorientano fastidiosamente lo spettatore, sono il frutto di una sceneggiatura tutt’altro che sapiente nel dosare le situazioni, le emozioni e il susseguirsi delle vicende che condurranno al gran finale della decima puntata (della prima stagione; ce ne sarà una seconda), sulla quale diremo a breve. In questa situazioni esteticamente disagevole, già gravemente penalizzata dalla sceneggiatura, non è che lo spettatore trovi conforto nella fotografia (onesta) o nella regìa, che francamente non sembra godere di proprietà transitive fra la qualità dello Scott padre e quella della progenie. Fortunatamente gli attori principali fanno del loro meglio (senza strafare) con qualche piacevole sorpresa nella protagonista femminile Amanda Collin e dei due giovanissimi protagonisti Winta McGrath e Felix Jamieson.
Fino alla nona puntata insomma, in attesa del climax conclusivo, Raised by Wolves poteva essere un prodotto di fantascienza assolutamente non memorabile ma accettabile, tanto più confrontandolo con la massa di schifezze che ormai ingurgitiamo quotidianamente in TV.
Ma poi è arrivata l’ultima puntata, quella che – in ogni serie – produce il picco di azione ed emozione, di sbroglio di matasse accumulate lungo tutta la stagione oppure di nuove ingarbugliate premesse che annunciano la stagione nuova. E qui, veramente, si misurano, assieme, l’estrema scarsità del plot e della sceneggiatura, con la mediocre regia di Luke Scott e la modestia degli attori di contorno (che ovviamente viene sottolineata, in negativo, dai fattori precedenti).
Da qui in poi, in questa recensione, ci sono delle rivelazioni sulla storia (spoiler), siete avvertiti.
Ma ti pare che l’androide femmina – asessuata – resti incinta; che lo resti per avere partecipato a una simulazione olografica; che il feto le nasca dalla bocca in una scena vagamente splatter; che si tratti di una specie di serpente uscito dritto dritto dalla vecchie serie di film Alien; che quell’essere sia evidentemente malvagio e non ci sia modo di ucciderlo; che nel frattempo il dio Sol (quello adorato dai fanatici Mitriaci, che non c’è modo di capire se siano i buoni o i cattivi), parli nella testa di questo e quello creando scompigli inenarrabili; che compaia all’improvviso una specie di abitanti in quello che era un pianeta deserto; che compaiano altri umani arrivati come deus ex machina alla fine; che Marcus, l’ateo infiltrato fra i Mitriaci, all’improvviso impazzisca (e va beh…) e non ci sia modo di ammazzarlo da parte di truppe sceltissime che gli fan di tutto ma lui niente… E tutto questo nell’ultima puntata (e parzialmente nella nona).
A quel punto, al vecchio spettatore, viene in mente con orrore Lost, la famosa serie, madre di tutte le serie, andata in onda quasi un paio di decenni fa, che dopo avere messo sul fuoco di tutto e di più, ogni sorta di proposta fra il fantascientifico e il soprannaturale, si è clamorosamente schiantata nel peggiore finale della storia televisiva vanificando sei anni di spasmodiche visioni di ben 114 puntate.
Raccontare storie non è per tutti. Raccontare storie televisive (quindi in un mix di immagini, suoni e testi) è certamente complicatissimo, e fare buone sceneggiature è – a parere nostro – una delle attività artistiche e creative più complesse che ci siano. Ma non è che non si possa; se andate a vedere la quarta stagione di Fargo, ancora disponibile sulla piattaforma Sky, vedrete la straordinaria qualità della sceneggiatura, affiancata da una fotografia eccezionale, da una colonna sonora memorabile… E poiché Raised by Wolves non è una serie minore di una produzione sconosciuta, ma esattamente il contrario, sorge una domanda: perché – con soldi e mezzi, con l’autorità e l’autorevolezza di quella macchina produttiva – si arrivano a fare pastrocchi simili?
L’unica risposta che ci viene in mente è la seguente: prodotti come Fargo, citato poc’anzi, sono elitari; sofisticati; impongono allo spettatore di farsi carico della storia, di capire la fotografia e la sceneggiatura, in questo caso ricche di citazioni autoriali che probabilmente non tutti sono in grado di cogliere. Ma la televisione di massa necessita anche di prodotti non di élite e, al contrario, di facile consumo, dove il colpo di scena (come l’alieno che “nasce” dalla bocca dell’androide) vale di più della ridicolaggine contestuale in cui quella stessa scena si colloca. Guardare la televisione per rilassarsi, distrattamente, senza farsi troppi problemi, è la principale e onorevolissima funzione della televisione alla quale si adatta senza alcun problema anche il vostro recensore; però, diamine! che scrittura maldestra e ridicola, che regia sciatta!
Dimenticavamo: la sigla è molto bella.
Claudio Bezzi