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Seed, riflessioni di Diego Zurli: “Seminare l’architettura”

Ho raccolto il  cortese invito della Direzione di questo magazine, a proporre alcune personali riflessioni  circa l’intensa settimana di incontri,  eventi e spettacoli che hanno caratterizzato una delle manifestazioni più originali e stimolanti alla quale mi sono trovato ad assistere negli ultimi anni  in fatto di architettura. La vastità dei temi affrontati  e la ricchezza  di contenuti  che ha contraddistinto le giornate del festival organizzate su  due diverse sedi – quella di Perugia e quella di Assisi –  hanno reso questo compito piuttosto arduo. Mi limiterò pertanto a proporre qualche breve considerazione per offrire un sommario resoconto di un appuntamento che solo la ostinata determinazione di Andrea Margaritelli e Bruno Mario Broccolo, uniti per  la comune passione per l’architettura nelle sue espressioni più significative ed elevate,  poteva condurre ad un esito decisamente soddisfacente.

Ho letto alcuni giorni fa una critica velata di sottile ironia sulla attuale ed  indiscriminata proliferazione dei festival di architettura nel nostro paese che avrebbe dato luogo ad un  singolare  genere  di intrattenimento – l’architainment –  ad uso e consumo di professionisti e studenti alla ricerca di ispirazione.  Non sarebbe giusto né onesto estendere questo tipo di critica all’evento di cui ci occupiamo che ha visto alternarsi  personalità e studiosi della più diversa estrazione disciplinare accanto ad architetti progettisti di chiara fama. Ciò che ha contraddistinto in chiave di effettiva originalità questo importante appuntamento e lo ha differenziato da altri festival similari, è stata l’idea di porre in relazione tra loro e far dialogare discipline e saperi a carattere scientifico o umanistico nell’intento di mettere a fuoco nuove idee per immaginare l’organizzazione dello spazio antropico nel nuovo millennio.

Come è stato osservato da molti relatori, i cambiamenti epocali ai quali stiamo assistendo e la tremenda velocità con la quale questi si susseguono davanti ai nostri occhi, hanno rimesso progressivamente in discussione alcuni dei paradigmi su cui si è fondata la presenza umana nel nostro pianeta.  Occorre ammettere che  ci sono fasi nella vita delle comunità  dove i necessari mutamenti che ne assecondano le dinamiche  non  sono più sufficienti perché l’accelerazione prodotta dagli eventi e le fratture che si possono produrre negli equilibri esistenti, impongono  radicali cambi di paradigma sotto molteplici profili quali quello culturale, quello sociale, economico e politico. Allora,  un semplice adattamento degli assetti e  i normali cambiamenti pur necessari da apportare alla situazione di fatto, attuale o preesistente,  non bastano:   perché si rendono indispensabili  profonde  trasformazioni – anche nel segno dell’utopia   – per poter  accompagnare ed affrontare una delle fasi più incerte e stimolanti della recente storia dell’umanità.

Tale, in effetti,  sembra essere la condizione del tempo che stiamo vivendo. Ed allora se l’architettura non intende abdicare al proprio compito evitando di  rinchiudersi in una torre d’avorio isolandosi dal resto del mondo che cambia, deve accettare la sfida di misurarsi con i suoi problemi, contaminandosi con altri saperi, tornando ad esprimere le visioni e – per usare le parole di Paolo Belardi –   le “utopie necessarie”  in grado di traguardare il futuro. Questo, se ho ben colto la chiave di lettura dell’evento,  è il senso che gli organizzatori hanno inteso dare al festival a partire dalla  sua denominazione SEED che intende appunto evocare la volontà di gettare un seme affinché possa germogliare e dare buoni frutti.

Le grandi sfide del nostro tempo riguardano, tra gli altri,  temi per lo più inediti quali lo sviluppo sostenibile, la transizione energetica, la tutela della salute minacciata da patologie finora mai viste, come abbiamo toccato con mano con la pandemia. Grandi questioni da affrontare  urgentemente e  con cui dovremo inevitabilmente fare i conti: il  cambiamento climatico, la perdita della biodiversità, il consumo di suolo, ecc. Ognuna di queste sfide  si intreccia inevitabilmente con i temi della città e del territorio e quindi anche dell’urbanistica la quale, nonostante gli sforzi compiuti sul piano teorico e pratico,  si è dimostrata impreparata ed  incapace di incidere in modo sostanziale nelle grandi trasformazioni che si renderebbero necessarie.  Temi che  a volte sembrano esulare dal tradizionale ambito di interesse della pratica architettonica comunemente intesa ma che, non per questo, possono essere considerati estranei   a tale ambito lasciando il campo ad altri saperi disciplinari.

Le città   non hanno cambiato  ‘pelle’ ma hanno innanzitutto cambiato ‘carne’ attivando nuovi inediti metabolismi: un fenomeno, quello delle trasformazioni che hanno interessato le città negli ultimi decenni,  non semplice da comprendere in tutte le sue infinite implicazioni. Si pensi, solo per fare un esempio, alle dinamiche demografiche o quelle dell’immigrazione che hanno in parte mutato la composizione sociale di intere parti di città.  La crisi della disciplina urbanistica e la sua attuale e conclamata  inadeguatezza nel cogliere le faglie che attraversano trasversalmente le città  – per fare solo un esempio –  imporrebbe di ragionare innanzitutto sugli errori affinché  – per dirla come meglio non si può con  le parole di un grande maestro come Bernardo Secchi –  il suo compito,   sul piano teorico e pratico, sia innanzitutto quello di ‘un continuo esercizio radicale di critica sociale’.

Per fronteggiare tali mutamenti,   sono purtroppo venute meno alcune delle tradizionali certezze che, nel recente passato, hanno accompagnato il nostro modo di affrontarle. Lo sviluppo tecnologico, rapido e impetuoso, ha cambiato a vista d’occhio il nostro modo di concepire lo spazio urbano, di progettarlo e di viverlo. Come   ricorda spesso tra gli altri Carlo Ratti, nel prossimo futuro a trasformarsi sarà il modo di vivere, di lavorare, di produrre di ricrearsi delle comunità di tutto il mondo, e non solo di quelle appartenenti alle culture occidentali.   Occorrerà pertanto accettare una profonda revisione dei nostri tradizionali modelli di riferimento, tecnici e culturali, per non subire i cambiamenti cercando di cogliere i segni che ne anticipino gli effetti.

Quindi, per concludere su questo punto, la sfida che abbiamo dinnanzi non è semplicemente quella di aggiornare i nostri linguaggi, né solo quello di immaginare nuove forme, ma quello di leggere ed interpretare i cambiamenti in atto abbozzando alcune possibili soluzioni ai problemi del nostro tempo. Questo, a quanto mi è sembrato di comprendere, è stato lo sforzo che il festival ha cercato di compiere nel corso delle giornate dense di contributi di diversa natura disciplinare   rivolgendosi ad una platea variamente composita che ha seguito  gli eventi con grande interesse ed attenzione.

Le ultime due giornate del festival, nella sede di Assisi, sono state interamente dedicate ad una profonda ed avvincente riflessione sullo spazio sacro. Non poteva esserci scelta migliore di una città dove, invasione dei turisti permettendo, la dimensione del sacro si respira nell’aria a pieni polmoni.  I lavori articolati nelle quattro sessioni ed aperti magistralmente da Mario Pisani,   hanno visto alternarsi studiosi e prestigiosi architetti di fama internazionale che hanno affrontato il tema  partendo da esperienze, visioni e concezioni  spaziali tra loro molto diverse. Riflessioni assai stimolanti in tempi come quelli attuali  dove, con il progressivo esaurimento della dimensione del sacro   e del venir meno  del senso della  trascendenza, lo sguardo degli uomini  è rivolto verso il basso piuttosto  che verso l’alto come nell’era delle grandi cattedrali gotiche.

Ma, come ha ricordato Paolo Portoghesi citando Papa Benedetto XVI, se l’uomo abbandona la trascendenza non è più uomo.   “Il costruire dell’uomo – è ancora Papa Benedetto a ricordarcelo – mira alla sicurezza, alla patria, alla libertà. È un ribellarsi contro la morte, contro l’insicurezza, contro la paura, contro la solitudine”. Ed allora la prima sacralità – ha osservato Franco Purini – è l’abitare dello spazio umano, quindi la dimensione del sacro non è solo quella delle chiese, ma è anche  quello della città, dello spazio domestico,  dei luoghi di vita e di lavoro  dove,  come ha aggiunto Mario Pisani, si incontrano il tempo e lo spazio.

Le due giornate hanno offerto spunti ed approfondimenti di grandissimo interesse, dove gli esempi illustrati  da  architetti, liturgisti ed artisti con  le loro opere,  nell’esprimere il sentimento del sacro attraverso la luce  e le forme, hanno offerto un panorama quanto mai vasto e completo di ciò che si muove sotto il cielo del nostro tempo: dove, come molti hanno sottolineato,  il problema di fondo non è semplicemente quello di trovare il giusto linguaggio o la migliore tecnica,  ma quello di “rappresentare l’invisibile”.

Mario Botta, ad esempio,  ha osservato che  l’architettura nasce dalla funzione ma   non è quest’ultima la cosa più importante  e la ricerca di forme che siano espressione di un linguaggio –  simbolico  e non banalmente allegorico –  di “spazi inutili..” come li ha definiti Paolo Portoghesi “..espressioni della presa di possesso della terra” –  capaci di  sedimentare  un immaginario condiviso,  è un compito che va ben al di là  del semplice gesto tecnico del progettare e del costruire. Così, le  mutate concezioni dello spazio sacro che originano dallo spartiacque rappresentato dal Concilio Vaticano II°  in risposta all’avanzare del processo  di secolarizzazione,   – ancora secondo Paolo Portoghesi – hanno condotto una sorta di “smarrimento tipologico”. Dove compiendo uno straordinario sforzo di rinnovamento e di riallineamento del magistero ecclesiale alle istanze della modernità, anche lo spazio sacro  ha conosciuto  radicali trasformazioni per favorire  una maggiore partecipazione dei fedeli allo svolgimento delle azioni liturgiche.

Osservando l’ampio repertorio di edifici di culto scaturiti dai nuovi orientamenti post-conciliari, secondo alcuni, i risultati non sempre appaiono convincenti soprattutto nel confronto, talvolta impietoso,   con gli straordinari esempi del passato.   “Ambienti – come sostiene Antonio Paolucciche non invitano alla meditazione, privi del senso del sacro e senza nessun afflato mistico-religioso” o come ha scritto il Cardinale Ravasi, “ chiese nelle quali ci si trova sperduti come in una sala per congressi, distratti come in un palazzetto dello sport, schiacciati come uno sferisterio, abbrutiti  come in una casa pretenziosa e volgare”. Luoghi e spazi di infinita bellezza ed armonia – quelli mutuati dalla tradizione costruttiva pre-conciliare –  ove ad esempio,  lo svolgersi della liturgia un tempo accompagnata dal canto Gregoriano che raccoglie esperienze e tecniche musicali assorbite dalle mille culture dove il cristianesimo ha portato il messaggio evangelico,  trasmettono una carica emotiva e comunicativa della dimensione del sacro che le la maggior parte  delle architetture disegnate da famose archistar  non sono purtroppo in grado di suscitare.

Concludendo, si può senz’altro affermare senza timori di smentite che il festival è stato un evento che ha offerto contributi di grande qualità,  frutto di una  organizzazione impeccabile   che ha richiesto un’ impegno   davvero encomiabile.  C’è solo da augurarsi che non resti un evento isolato ma che, magari con uno piccolo sforzo  in più da parte delle istituzioni in aggiunta a quello dei numerosi sponsor privati, possa essere periodicamente replicato aggiungendo un appuntamento di indiscutibile livello qualitativo al calendario di eventi culturali che la nostra regione è in grado di offrire.

 

 

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