PERUGIA – Come si fa a non voler bene a Sandro Penna? A Penna che legge sul suo letto le poesie che ha smesso di scrivere da tempo, circondato dai quadri, dalla polvere, dalle cose, asfissiato e nutrito da tutto ciò che è diventata la sua vita da vecchio. A Penna giovane, ragazzo a Perugia, che le poesie comincia a scriverle, che da Perugia se ne va, per non tornare quasi più. A Penna mercante, a Penna in posa, perennemente, anche quando vorrebbe dare a intendere di no. E a Penna circondato dai suoi ragazzi, dai suoi artisti e dai suoi amanti. Nella collezione privata delle opere d’arte che Sandro Penna aveva nella sua casa romana di via Mola de’ Fiorentini al momento della morte ci sono tutte queste ragioni, quelle per volergli bene, e ci sono anche le ragioni per cui a Penna, oggi, non si può smettere di continuare a pensare nei termini in cui con la sua opera ha meritato che di lui si pensasse. E cioè come il più grande uomo di lettere perugino del Novecento, e uno dei massimi poeti italiani della contemporaneità.
La collezione è privata, ed è stata una scoperta. L’hanno scoperta Tommaso Mozzati e Roberto Deidier come Colombo ha scoperto l’America: c’era già, ed era espressione di tempi ed esistenze già consumati appieno, eppure senza l’intuizione dello storico dell’arte perugino sarebbe rimasta lì, nelle stanze private degli eredi di Penna, in un’altra casa in un altro luogo di Roma, probabilmente a lungo. Mozzati a Penna vuole bene da sempre, e a Penna pensa da sempre e moltissimo, perché prima che un uomo di arte è un uomo di lettere anche lui, e perché è un altro che a Perugia è nato e cresciuto e che da Perugia ama partire. Eppure lui in fondo spesso rimane, e non tanto e non solo per l’incarico al dipartimento di Lettere dell’Università. Lo sguardo sulla città di Penna, però, lo capisce benissimo. E qualche anno fa ha capito che Perugia doveva a Penna un racconto nuovo. Quello di ciò che di Penna è stato al di là dei versi e al di là del genio che nei versi ha saputo condensare. Penna e l’arte, quindi, e cioè Penna e l’arte figurativa. I suoi quadri, i suoi amici pittori e scultori e fotografi, Penna e i suoi artisti romani.
C’erano quattro o cinque opere che Mozzati aveva in mente: due o tre dipinti, qualche bozzetto, tutti ritratti. Ed è da lì che è partito per convincere Marco Pierini, che nei suoi anni ormai agli sgoccioli da direttore ha saputo ridare alla Galleria Nazionale dell’Umbria un posto centrale nella vita culturale della città, a dedicare una mostra, appunto, al rapporto tra Penna e l’arte. Non gli ci è voluto molto. Così come gli è bastato poco per coinvolgere anche Deidier, il poeta e saggista romano che di Penna ha curato il Meridiano. Si è trattato di andare a trovare Letizia Coppotelli, la nipote di Penna, l’erede che in casa aveva forse qualcosa da aggiungere a quell’idea di partenza. E alla prova dei fatti è emerso che non era solo qualcosa, ma una quantità di quadri sterminata. La gran parte dei 150 pezzi presenti nella mostra “Un mare tutto fresco di colore”, curata insieme a Mozzati e Deidier da Carla Scagliosi e in programma alla Galleria fino al 14 gennaio, viene da lì.
Opere belle, opere bellissime, oppure opere che significano molto. Penna per anni ha vissuto di questo, di quadri da comprare e da vendere, di quadri da farsi regalare, soprattutto, e poi vendere. Ma alla fine di vendere aveva smesso. Non di accumulare: le foto di Sandro Becchetti e Vittoriano Rastelli del 1972 e del 1975 lo raccontano precisamente così, come uno stralunato accumulatore.
In quegli scatti Penna è sornione e decadente, ed è senza dubbio tragico. “Questa mostra è per queste foto e contro queste foto”, dice Mozzati. Si capisce bene cosa intenda. Penna è quello, certo, ma è molto altro.
È un uomo di buongusto che sa riconoscere il pregio e da buon ragioniere sa dargli un prezzo, e che lamenta di dover conciliare la purezza dell’arte con le necessità materiali, eppure le concilia. È per esempio il vate dei giovani artisti della Scuola di piazza del Popolo, il loro riferimento, come un tralcio che li univa a come il Paese tutto sommato era riuscito a essere anche prima della guerra, anche nei vent’anni terribili dei fascisti al governo. Si potevano scrivere poesie come quelle di Penna, ai tempi di Mussolini, anche se non tutte si potevano pubblicare. E si potevano amare ragazzi e ragazzini. Le poesie prima di tutto si scrivono, l’amore prima di tutto si fa. Neanche i regimi peggiori sono in grado di impedirlo.
La mostra è splendida. Non staremo qua a farne la parafrasi: andate a vederla, perché parla da sola, e dice molte cose. I quadri, le foto, i manoscritti, i libri d’artista, i frammenti video, è tutto in un ordine eloquente e tutto contribuisce, gradualmente, a farsi un’altra idea di Penna. Per la Galleria è un atto di coraggio e una boccata d’aria nuova. Un grosso scorcio di Novecento accanto alle dotazioni di sempre, l’arte inevitabilmente sacra su cui Perugia ha costruito un bel pezzo di identità che convive, nel palazzo civico della città, in quello che è tuttora il luogo del potere, con l’arte libera di cui si è circondato Penna nella sua vita libera, di poeta e uomo e amante libero nel modo unico in cui Penna fino alla fine, decadente e tragico quanto si vuole, ha saputo esercitare la sua libertà. Il valore di quest’esposizione è indubbio, così come lo è quello della collezione a cui ha grandemente attinto. Tra due mesi e mezzo la mostra chiude, e il destino di queste opere andrebbe deciso in fretta. A trovare i soldi, la città di Perugia dovrebbe comprarsele, e conservarle per dare valore nuovo a posti che faticano a costruirsi un’identità. Insomma a Palazzo della Penna, che sarebbe ideale. Tra Dottori e Beuys manca il cuore del Novecento, in fondo, e quel cuore è esattamente ciò che saprebbero conferire i lavori di Sandro Penna. E i soldi, a volerli trovare, si possono trovare. Come si fa a non voler bene a Sandro Penna? Come fa, la sua città, a non volergli tutto il bene che serve?