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Roberto Ruggieri direttore artistico del CUT: “Essere o non essere? Rimane questo il problema”

PERUGIA – In questi giorni di gran pena per la cultura, per chi ci lavora in prima luogo ma anche per noi che vorremmo in qualche continuare a frequentare fisicamente, il Centro Universitario Teatrale di Perugia si è costantemente adoperato a far sentire la sua voce di resistenza con delle riflessioni accorate, consapevoli e piene di dignità rispetto alla professione e alla professionalità. Oggi registriamo con interesse e proponiamo integralmente l’intervento del fondatore e direttore artistico del CUT, Roberto Ruggieri.

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Essere o non essere? Resta questo il problema

di Roberto Ruggieri

Siamo andati planando a terra, anche se di consueto tendiamo a non farlo, costretti dalle ultime tragiche vicende. Ciò che abbiamo in sintesi espresso in forma monologata nei nostri tre precedenti interventi è la realtà non esaltante, ancor più in tempi di pandemia, lo stato delle cose così com’è percepito da addetti ai lavori ignorati dallo Stato centrale e che stanno ai margini del salotto mondano del teatro che conta, quello paludato, adeguatamente sussidiato da enti pubblici e da privati, al quale viene puntualmente garantita in varie forme e modi un’esaustiva visibilità. Ma, visto e considerato che quando siamo presi in considerazione, ciò avviene soltanto per essere tartassati in tempi ordinari da fiscalismi eccessivi e per essere vessati, come sta attualmente avvenendo in un periodo straordinario, da insani provvedimenti sospensivi, non sarà preferibile, c’è da chiedersi legittimamente, rendersi ancor più invisibili, tornando a volare più in alto possibile? 

E poi, visto e considerato che la cultura dominante confonde l’opulenza della scena col valore di un teatro, non sarà forse un sollievo essere invisibili?

Consigli (non richiesti) su come essere, per non essere visibili

Si può naturalmente esaminare il teatro – ma questo è vero non solo per quest’arte – secondo molteplici angolazioni e punti di vista più o meno legittimi. Tra le tante possibilità a disposizione, poniamo il caso di tracciare una vera linea di demarcazione tra il teatro dell’apparenza e quello dell’essere, tra il teatro ‘ricco’ e quello ‘povero’, tra ‘figurare di essere’ ed ‘essere’. Per esempio, durante il primo lockdown generalizzato il C.U.T. di Perugia è stato tra coloro che hanno deciso di ‘essere’: in questo caso, di essere assenti, di non apparire, diversamente da coloro i quali altrettanto legittimamente hanno fatto di tutto per apparire, a qualsiasi costo, anche in modo virtuale, togliendo al teatro la sua viva specificità, pur di non perdere la propria particulare visibilità. Il vantaggio di essere invisibili, è quello di non aver nulla da perdere nel rimanere tali.

Essere vuol dire avere il privilegio di soffermare lo sguardo all’interno; apparire significa dirigerlo prevalentemente all’esterno, dando più rilievo all’esteriorità. Spesso e volentieri essere vuol dire povertà, essenzialità, riduzionismo estetico e culturale, minimalismo: negli anni Sessanta del secolo scorso Grotowski e Flaszen lo hanno teorizzato stupefacendo il mondo intero. Come ha fatto anche Brook dagli anni Settanta in poi con risultati altrettanto sorprendenti. Apparire è sinonimo di altisonante opulenza, di magnificente ricchezza (scenografica, illuminotecnica, costumistica, impiantistica, ecc.) e può dare risultati altrettanto interessanti. Tra i massimi esponenti del teatro ricco non possiamo non ricordare Ronconi, che ha rivoltato i teatri in tutti i modi possibili e immaginabili collocando, tra le tante soluzioni innovative, oltre mezzo secolo fa, gli spettatori sui palchi e gli attori in platea, di cui gran parlare si fa anche oggi, anacronisticamente, a distanza di decenni.

“Molti preferiscono l’apparire all’essere, e così fanno torto alla giustizia (Dike)”, scriveva Eschilo 2.500 anni fa (Agamennone, 788-89). 

Cosa desideriamo essere? Non è facile rispondere a questa domanda se si è muniti di certezze: non tutti sanno cosa desiderano essere nei loro sogni. L’interesse verso il mondo interiore va sempre più scemando. È necessario, soprattutto per chi si occupa d’arte, saper rispondere a questa domanda, per non vivere, insoddisfatti, di lamenti, frustrazioni, inappagamenti. Per il compiaciuto attore medio (e per il banale regista medio) il teatro non è altro che sé stessi. I sogni, i desideri espressi dal nostro mondo interiore, per non essere svalutati da immagini ed esagerate ambizioni esterne, prodotte da esigenze commerciali dettate dalla volontà di apparire, dalla rincorsa al successo e all’affermazione dell’ego, dovrebbero rispecchiare le vere autonome esigenze della propria psiche non condizionata, rimanendo il più possibile a contatto con l’interiorità.

Per fare questo si dovrebbe essere convinti di non essere noi (essere o non essere?) a comporre la nostra vita, ma che è essa stessa a narrare noi entelechialmente, a renderci compiuti, realizzando in sé il suo fine, senza interventi esterni, realizzando quelle che sono le sue possibilità, dando così forma alla nostra esistenza.

Prima di agitarci al di fuori, sarebbe bene che ognuno rispondesse alla suddetta domanda: cosa desideriamo essere? Non c’è sindacato al mondo che possa rappresentare noi stessi. Mi sembra un po’ squallido, mi si consenta dirlo, delegare ad altri il compito di rappresentarci. Chi può mai rappresentarci, se non noi stessi? 

Ricorrendo al concetto dell’entelechia, non vogliamo con ciò negare l’intervento della volontà, il libero arbitrio, ma è buon senso non forzare la situazione per appagare sogni altrui, appresi dall’esterno, lasciati penetrare in noi allo scopo di uniformarci piattamente agli stereotipi culturali e sociali altrui, tanto per apparire. Siamo agiti non coscientemente, lo dice anche la scienza oramai in modo corale.

Lasciamo i trucchi del mestiere al replicante mestierante, convinto com’è che il teatro sia sé stesso, indaffarato a plagiare sé stesso, le ricette sceniche appariscenti ai registi privi di originalità esperti a ‘mettere in scena’ i repertori. Fate vedere che la vera ricchezza è nella povertà, che non significa immiserimento. Senza perdere tensione verso l’assoluto, che è ciò che conta veramente, integrando energie psichiche e fisiche. Va mantenuta la rotta della via negativa, la sola che può condurre a una vera trasgressione in un rapporto comunitario, diretto e palpabile, tra l’attore e lo spettatore. L’esplorazione delle possibilità estreme non richiede altra ricchezza che quella interiore che ognuno di noi potenzialmente possiede. Il teatro come atto di conoscenza spirituale, nient’altro che questo.

E che ognuno segua il suo cammino. Buon viaggio!

Amen. 

 

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