Un artista e un uomo come Ezio Bosso sa che resterà nel ricordo di molti. Una certezza che nasce dalla piena consapevolezza dell’onestà con la quale ci si pone di fronte a ciò che si vuole esprimere, creare, lasciare. Lo scrittore e poeta brasiliano Paulo Coelho sostiene che non si può cancellare dal cuore il dolore di una perdita, ma ci si può rallegrare con ciò che se ne ricava. Vero, purché, appunto, ci sia un’eredità da cogliere.
Nel mio piccolo, posso dire che il maestro Bosso me l’ha lasciata con questa intervista a Gruppo Corriere alla vigilia dello Stabat Mater di Gioachino Rossini che diresse il 4 maggio dello scorso anno nella chiesa di San Fortunato per lo Iubel Festival di Valentina Parasecolo, con la sua European Philarmonic Orchestra, il Coro Filarmonico Rossini di Pesaro e I solisti della Fondazione Luciano Pavarotti. Concerto, insomma, indimenticabile al quale ho avuto il privilegio di assistere. Ripropongo oggi questo dialogo che ho avuto l’opportunità di avere con lui per i tanti aspetti che Bosso toccava, per l’umanità che ha confermato di avere, per la leggerezza con la quale intendeva la vita, per la passione per l’arte, per il rigore che applicava alla musica. Eccola.
Maestro Bosso, perché proprio lo Stabat Mater di Rossini?
“Lo ritengo il più emblematico, il più sofferto degli Stabat Mater e al di là della bellezza in sé, evidenzia quanto un testo possa cambiare quando lo si suona. E’ quello che più rappresenta la serie di immagini che Jacopone dà del sentimento rabbioso del dolore di una madre. Questa è sì una liturgia ma soprattutto una lauda alla sofferenza di una madre: un’immagine devastante che metti dentro. E’ difficilissimo entrarci, da star male. Per me è uno dei concerti più difficili”.
Del resto Jacopone va oltre la preghiera.
“Lui di fatto chiede: come potete soffrire la sofferenza di questa madre. Una poesia immensa. La dimostrazione è nel passaggio In sempiterna saecula. Amen dove la madre pur di fronte alla consapevolezza dell’eternità del Cristo oppone la disperazione di aver perso quello che è pur sempre suo figlio. Mi commuovo ogni volta che mi trovo di fronte a questo passaggio sia del testo che della visione incredibile del genio musicale che è proprio di Rossini”.
Accanto a lei, bravissimi musicisti…
“C’è la European Philarmonic Orchestra con la quale non proviamo ma studiamo nel profondo ciò che ci apprestiamo a suonare. Grandi musicisti ai quali fa piacere stare assieme a me”.
Che poi il concetto di Europa in momenti come questi è importante.
“Un concetto laico, inclusivo e noi abbiamo fisicamente abbattuto i confini, visto che suonano musicisti provenienti da tutta Europa e non solo. Poi ci saranno i preziosissimi contributi del Coro Filarmonico Rossini e dei solisti della Fondazione Pavarotti”.
Propone a Iubel Festival lo Stabat in un momento in cui si tende a non provare più compassione.
“Cum patior, avere la stessa sensazione dell’altro, vivere lo stesso dolore. Che non è fare lo sguardo intristito ma ragionare diversamente: tendere la mano è un gesto meraviglioso in sé e non perché ti fa più nobile. C’è un eccesso di egocentrismo nel mondo, nelle persone, nei social che rendono tutti esperti e superiori. Passo il tempo a studiare e apprendo ogni giorno quanto piccoli siamo: il principio della metafisica”.
La musica abbatte i muri e questo Stabat ne sarà una ulteriore prova.
“Sarà un’edizione particolare: gli scrittori di musica davano grande importanza alla parola, la nota che mettono non sta lì perché è la più facile da inserire dentro la metrica, anzi talvolta si scontrano e io ho voglia di racconatare numero per numero le parole che ci sono dentro e a cosa portano. Un modo per onorare lo Stabat Mater in maniera diversa dal solito, in una liturgia che si raddoppia. Per il resto sì, suona sia chi ha lo strumento sia chi partecipa ascoltando”.
Il suo maestro Ludwig Streicher le disse che non si sarebbe potuto fermare a eseguire la musica perché non le sarebbe bastato.
“Un grande maestro non è colui che ti dice come fare ma ti svela chi sei. Suonare è una gioia ma lui mi disse che potevo suonare tutti gli strumenti e che c’era solo un modo per farlo. I primi brani li ho scritti a 10 anni. A 16 dirigevo di nascosto e pensavo di non potermelo permettere. E ancora adesso ho i mie dubbi, però la natura segue sue direzioni”.
Cos’è il successo?
“Un participio passato. Personalmente passo il tempo a verificare quello che non ho fatto bene”.
Una curiosità: perché in Rain in your black eyes la sua musica suggerisce un’infinità di colori e il video è in bianco e nero?
“Quel meraviglioso cortometraggio del 1929 di Ioris Ivens ‘Regen’, una giornata di pioggia, aveva musica che a lui non piaceva. Per puro caso, giustapponendo la mia partitura al filmato, c’erano persino i sincroni, compreso il cambio dell’accordo esattamente nel volo finale dei piccioni. Mi piace l’idea che da lassù Ivens dica: stavolta non mi dispiace”.
Tormentone del Juke Box: un aggettivo o riflessione per alcune sue composizioni. Tango triste.
“Dedicato a un gatto. Vedo un elemento, sono attratto da un concetto, da una riflessione. Lo studio. Le movenze di quel gatto e la sua dipartita hanno suggerito Tango triste”.
Solitudes.
“Il vuoto. L’ossessione”
Music for weather elements.
“Il mio personale studio sulla meteorologia: il rivelarsi degli elementi scatena il ricordo che abbiamo dei paesaggi e sono capaci di cambiare la luce”.
Split.
“Le scelte della vita”.
Salvatores, film Quo Vadis Baby, Impressioni di settembre.
“Non la volevo fare. Allora l’ho concepita e suonata alla mia maniera. Ne è nata una versione folle per 6 contrabbassi, chitarra e batteria anni ’40. A di Cioccio della Pfm piaceva perché completamente diversa. Lo credo bene!”.
Ecco. L’intervista finisce qui. La sensazione della potenza di quelle parole si accresce oggi. Per quell’eredità che Ezio Bosso sapeva ci avrebbe lasciato. Addio, maestro.
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