SPOLETO – Una settimana fa avevamo anticipato che la conferenza dedicata alla terza edizione del Festival dei Due Mondi, quella del 1960, che si è tenuta questa mattina, giovedì 27 giugno, all’Archivio di Stato di Spoleto “soggetto promotore culturale del territorio al pari di altri” come avrebbe poi detto il direttore dell’Archivio di Stato di Perugia Luigi Rambotti, avrebbe regalato al pubblico molto di più di quello che ci si poteva attendere. Le aspettative infatti non sono state disattese, sicché insieme alla conferenza si è inaugurata una mostra fotografica (aperta fino al 30 settembre 2019) e si è presentato un ampio e documentato volume, disponibile presso l’Archivio di Stato spoletino – una pubblicazione finanziata grazie alla Fondazione Antonini – di quella terza travagliata ed avanguardista edizione, tra innovazione e tradizione.
I lavori tecnici, cui la lezione dava crediti formativi ai giornalisti, sono iniziati nella seconda parte della mattinata seguiti dai primi saluti istituzionali. Il sindaco Umberto De Augustinis ha aperto parlando con tono nostalgico: “Chi ama i ricordi e le prime edizioni del festival non ne può fare a meno. Con gli articoli scritti in questo modo”, riferendosi al volume redatto da Moreno Cerquetelli, Paolo Bianchi, Antonella Manni e Marco Rambaldi, “si potranno trovare tanti pezzi di appetito in particolare quelli Menottiani”. Inoltre, il sindaco, non ha mancato di sottolineare la volontà dell’amministrazione, insieme all’assessore alla Cultura Ada Urbani anch’essa presente, di investire in cultura anche in inverno per non consentire agli spoletini di vivere (o di morire) solo di Festival.
Quella stessa kermesse che da finestra aperta sul mondo ha permesso a generazioni di giornalisti di formarsi sul campo, come ha ricordato il presidente dell’Ordine dei Giornalisti dell’Umbria Roberto Conticelli. Una vera e propria “palestra” che suscita la “stessa importanza di una corrispondenza di guerra” per tutti quei cronisti che negli anni si sono succeduti e sono cresciuti professionalmente.
Dopo le prime due edizioni, già nel 1960 molta stampa credette che non ci sarebbe stato alcun futuro per il Festival. Ché sì Menotti era stato prima “un Matto” e poi “un Duca” per gli spoletini ma che in quel contesto storico, nonostante l’impennata economica e turistica (+111% a fronte delle 60.000 persone in movimento sulla città, come dai documenti rilevati dal responsabile dell’Archivio di Stato di Spoleto Paolo Bianchi), non ci sarebbe stato spazio per un’idea tanto grande e tanto aperta. “La prima grande contraddizione che si può rilevare”, dirà la giornalista del Messaggero e storica dell’arte Antonella Manni, “è la presenza di un sindaco comunista a Spoleto, Giovanni Toscano, che si aprirà agli americani”. Non solo si era in piena guerra fredda, ma proprio nel luglio del 1960 gli Stati Uniti avrebbero imposto a Cuba un embargo, un blocco commerciale ed economico in risposta alla rivoluzione di Fidel Castro. Allora Spoleto, ché città era nel 1960? “Si stava vivendo una grande crisi. La miniera di Morgnano stava chiudendo e quindi la città doveva ripensare sé stessa” riprende la Manni, “si pensò quindi di fare della città di Spoleto una capitale della cultura per questi suoi aspetti storici e artistici”.
Il format del Festival in sostanza ha fatto scuola proprio con quella idea forse considerata un po’ strana all’inizio di “far colloquiare i due mondi divisi dopo la seconda guerra mondiale”. È il giornalista RAI Moreno Cerquetelli, analizzando il giornalismo culturale tra passato e presente, a dirci che sarà proprio nel 1960 che si avrà il vero consolidamento della manifestazione spoletina. Gli stili di scrittura (ad esempio quello di Adele Cambria) e l’attenzione che i giornali in principio davano alla critica e alla cronaca, vide in quell’anno l’ammissione sempre più massiccia di bufale funzionali ad attrarre il pubblico, o come diremmo ora fake news. Prendendo spunto dall’attualità venivano inventate di sana pianta notizie del tutto false, come ad esempio i matrimoni imminenti e prontamente smentiti del direttore d’orchestra Thomas Schippers o la presenza di Marilyn Monroe a rappresentare una pièce scritta dal marito Arthur Miller appositamente per lei.
Il Festival che quell’estate durò un mese, presentò in quella edizione almeno due spettacoli di particolare rilevanza. Il primo che aprì la kermesse, la messa in scena della Bohème di Giacomo Puccini, una performance che come scriverà il New York Times, nella spiegazione del giornalista Marco Rambaldi dedicata alla stampa estera, in un articolo generalista uscito dopo la chiusura del Festival “era stato uno degli eventi più importanti a cui avevano assistito” fosse anche solo per l’ambientazione che Menotti volle nel 1896 nella Parigi dei librettisti Giacosa ed Illica.
Poi la rappresentazione teatrale di “Yerma” del poeta Federico Garcia Lorca. Nonostante il suo assassinio fosse avvenuto nel 1936, più di vent’tanni dopo sempre durante la dittatura franchista non fu possibile metterla in scena in Spagna, anche a causa della riluttanza della famiglia. Eppure Menotti, con la sua solita determinazione, dopo aver incontrato il regista Luigi Escobar e la sorella di Garcia Lorca, Concha, riuscì nel suo intento e portò Yerma a Spoleto. Due anni dopo in tournée sarebbe tornato in patria. “Menotti aveva intuito anche nell’uso intelligente dei mezzi di informazione” spiega Cerquetelli, come quando inventò l’Aperitivo Concerto che per sole 300 lire permetteva al pubblico di scegliere l’esecuzione di musiche dal vivo di Mendelssohn piuttosto che di Schubert direttamente da un menù affisso.
Geniale e illuminato Menotti. Ma anche strano, assurdo. Si può dire che il Maestro visse anni di gioia ma anche di diffidenza, non solo per via della censura che all’epoca vigeva nei suoi stretti canoni morali, come si evinse dall’esclusione di un’opera della famiglia Wilcock o dallo scambio che egli ebbe con l’Arcivescovo e che vi lasciamo scoprire, ma anche dai debiti che affliggevano l’organizzazione.
Il lavoro presentato questa mattina, dunque, potrebbe avere il pregio di richiamarci tramite diverse fonti custodite in “faldoni inespressi” ad alcuni aspetti oggi un po’ dimenticati. Alla luce di quello che è diventato il Festival e di quello che sarà in futuro, perché come abbiamo visto, pur in diversi momenti di transizione, di fermarsi il Festival non sembra avere alcuna intenzione.