Quattro anni fa il terremoto che sconvolse l’Umbria, alcuni simboli andarono persi per sempre

PERUGIA – Sono passati quattro anni da quelle terribili scosse. Quattro anni in cui promesse e rassicurazioni sono risultate parole che si sono sciolte come neve al sole. Quattro anni. E grandi problemi rimangono ancora da risolvere, come ad esempio le opere pubbliche. Nessuna delle settanta presenti nel territorio nursino è stata ancora ricostruita. Intanto i ragazzi hanno iniziato l’anno scolastico per il quarto anno consecutivo senza biblioteche, palestre e mense. Il dramma di chi abitava una casa popolare continua, nessuno dei venti stabili è stato ancora ricostruito e gli sfollati sono costretti ad abitare ancora gli alloggi di emergenza. I cimiteri sono ancora zona rossa e pertanto al momento è impossibile ristrutturare le tombe danneggiate; gli uffici comunali sono ancora inagibili e per l’ospedale al momento non appaiono chiare quali siano le intenzioni. Si parlava dell’edificazione di un nuovo ospedale sino al luglio scorso, ma al momento non è stato ancora presentato alcun progetto. I nursini temono la definitiva chiusura del nosocomio. In questi quattro anni tante altre questioni hanno destato l’attenzione generale e ora il rischio più grande è che l’emergenza Covid 19 faccia relegare in secondo piano le gravi problematiche che ancora persistono. Dopo quattro anni, ci pare giusto ricostruire il quadro di quei drammatici giorni con alcuni articoli tratti dalle emozioni vissute al momento. Un quadro per forza di cose parziale che concentra l’attenzione su alcuni elementi simbolici del territorio nursino, tentando di fornire un’idea di quel che è andato perduto con i sisma e che solo parzialmente si sta faticosamente ricostruendo.

 

Le Immagini che fecero il giro del mondo

 

Quelle immagini hanno fatto il giro del mondo: monache, frati e persone comuni inginocchiati nel centro della piazza di Norcia a invocare la misericordia del Signore, unico e potente detentore delle sorti degli uomini. Sembravano tratte da un’altra epoca, da quando il Signore era realmente vissuto come unico e vendicativo Dio imperscrutabile nei suoi progetti. Invece era tratta da una straziante sequenza in diretta dai luoghi del terremoto: quella tragica, domenica mattina del 30 ottobre già scolpita nell’immaginario collettivo come simbolo della fragilità dell’uomo travolto degli eventi della natura. Ma quelle immagini rispecchiano un’Umbria legata alla sue inscalfibili tradizioni, all’Umbria mistica e monastica, all’Umbria dove il tempo sembra essersi fermato per sempre, se un cataclisma non ci avesse ricordato che solo un istante ci divide tra la vita e la morte. Immagini simboliche quindi, così come abbiamo voluto scegliere tre simboli del territorio umbro più ferito dal sisma, quello circoscritto nell’area tra Norcia e Preci, per scolpire nella nostra memoria cosa è andato perduto per sempre, per non dimenticare e insieme per continuare a guardare al futuro, certi della fatica e dei problemi che devono essere affrontati da chi ha perso tutto, ma con la consapevolezza che la gente umbra non si arrenderà. L’effigie di San Benedetto al centro della piazza di Norcia è rimasta intatta a proteggere le persone che pregavano fedeli alla regola benedettina dell’ora et labora. Sarà un lavoro lento e defatigante, ma se tutti, ognuno per la sua parte, daranno il loro apporto, ne usciremo a testa alta con grande dignità.

 

Crolla un simbolo europeo: la cattedrale di San Benedetto

 

Insieme alla concattedrale di Santa Maria Argentea a pochi metri di distanza, era l’edificio più alto di Norcia, quel che è rimasto delle antiche vestigia e delle testimonianze di tempi ormai lontanissimi. Sotto i suoi occhi ha visto trionfare il dominio dei Saraceni che seguirono quelli di Longobardi e Goti. Datato XII secolo, l’edificio fu consacrato al culto di San Benedetto e della gemella Santa Scolastica, due santi che nell’alto medioevo contribuirono a dare regole certe alla vita monastica. La cattedrale di San Benedetto dominava la prospettiva della piazza omonima a Norcia con le sue guglie, il suo stile gotico e sul fianco destro il cinquecentesco Portico delle misure con nove antiche misure locali in pietra per i cereali. Era l’edificio più alto di Norcia preesistente a un regolamento pontificio settecentesco che vietava la costruzione in città di case superiori e due piani per sancire così qualche contromisura ai frequenti movimenti tellurici della zona. L’interno della chiesa era già stato infatti completamente ristrutturato nel XVIII secolo come risposta ad un sisma di circa ottanta anni prima. Di tutto questo è rimasta quasi miracolosamente intatta la sola facciata, tutto il resto è crollato con la terribile scossa del 30 ottobre. Un danno immane alla fisionomia della cittadina e al culto del Santo che Paolo VI volle patrono d’Europa. Brunello Cucinelli, re del cachemire e della sua fiorente industria a Solomeo, l’imprenditore che più volte ha manifestato il suo radicamento al territorio e alle tradizioni umbre, ha già dichiarato che finanzierà per intero la ricostruzione della cattedrale, suscitando persino polemiche tra chi vorrebbe questo compito di competenza pubblica, vale a dire della Soprintendenza. Competenze o meno, la cattedrale di San Benedetto oltrepasserà il tempo, ne possiamo essere certi. Perché il suo alto valore simbolico non può essere distrutto così come le immagini che hanno inondato i media di tutto il mondo, subito dopo il violentissimo sisma del 30 ottobre, vorrebbero farci credere. O questa, almeno, è la speranza condivisa. Lo stesso presidente della Commissione europea Jean Claude Junker ha riconosciuto alla basilica lo status di icona sulla ricostruzione della quale convergeranno gli stati membri dell’Unione europea perché è “il simbolo del patrono del nostro continente”.

 

Castelluccio distrutta insieme alle sue tradizioni

 

Castelluccio se n’è andato. Forse per sempre, quasi completamente distrutto dalla furia del terremoto. Se n’è andato con i suoi segreti anche come simbolo del suo patrimonio di fiabe, di magìa, di scherno, di tradizioni popolari e di prelibatezze come tartufo e lenticchie della piana (il Pian Grande che si estende ai suoi piedi). Castelluccio e i suoi monti sono stati a lungo dimora della Sibilla, di fate, o streghe, veggenti che abitavano le caverne dei Sibillini, di erbe altrettanto magiche e di pozioni e filtri potentissimi. Così vuole la leggenda che tra la grande pianura, in primavera ricolma di fiori circondata dai monti che si impennano alti, ha trovato il luogo ideale perché la fantasia e l’immaginazione unite alle credenze di una cultura che si è andata via via estinguendo, creassero miti che si sono tramandati di generazione in generazione. Ma Castelluccio con la sua teoria di luoghi dove mangiar bene e affollato di turisti interessati alla pratica del parapendio o all’equitazione, è stato anche topos perché lo scherno popolare si manifestasse nelle sue sature, tra satire e fabule, o più a valle nella Valnerina conosciute con il nome di “scantafavole”, ovvero di quel ricco patrimonio di tradizione orale che la cultura rurale amava animare attorno ai camini nelle serate d’inverno e sotto il cielo stellato delle lunghe notti d’estate. A Castelluccio questa usanza ha assunto una forma diversa, decisamente più scanzonata, ma ampiamente condivisa tra gli abitanti del borgo e soltanto da loro per due ordini di motivi: essere a conoscenza degli antefatti e avere dimestichezza con le forme dialettali locali. Sui muri degli edifici di Castelluccio infatti a partire dagli anni Sessanta cominciarono ad apparire scritte in calce bianca che rievocavano e ironizzavano sui fatti paesani con particolare riferimento alle ragazze del borgo con apprezzamenti espliciti e riferimenti altrettanto salaci. Una modalità di comunicazione per pochi “iniziati”, ma di carattere prettamente popolare, che suscitò anche l’attenzione di etnologi e antropologi. Con la sequenza dei sismi del 24 agosto, del 26 e del 30 ottobre anche quelle scritte sono per lo più andate completamente distrutte, rendendo Castelluccio il luogo magico e folklorico di un ricordo che si allontana.

 

 

L’Abbazia si Sant’Eutizio frantumata: custodiva le testimonianze della medicina empirica

 

Distrutta, frantumata in mille frammenti che avevano resistito all’usura del tempo per una quindicina di secoli. La prima scossa di terremoto del 26 ottobre ne aveva compromesso il prezioso rosone centrale e parte della facciata, con quella del 30 ottobre l’Abbazia di Sant’Eutizio, tra le testimonianze del monachesimo e della regola benedettina più importanti al mondo, ha concluso il suo ciclo fisico di veridicità legata alla storia della medicina e della chirurgia insieme a quella della norcineria. Non ci dilungheremo sulle testimonianze storico-artistiche all’interno dell’edificio di culto che appaiono pur di tono minore rispetto al valore simbolico che l’Abbazia ha rivestito nel corso dei secoli per l’evoluzione dell’arte medica e in particolare della chirurgia. Il luogo della valle castoriana scelto intorno al IV secolo da alcuni monaci siriani per la vita contemplativa fu infatti determinante per l’acquisizione di tecniche chirurgiche empiriche che nel corso dei secoli divennero sempre più determinanti per l’evoluzione dei segreti medici e di quelli officinali. Lo studio dell’anatomia favorita dalle conoscenze delle popolazione nursina in fatto di suini e di ovini molto simili nella fisiologia degli organi interni a quelli umani, favorì nell’intreccio empirico tra norcineria, ovvero l’arte della lavorazione delle carni a fini alimentari e la chirurgia, un deciso balzo in avanti nelle conoscenze e nelle cure di patologie che resero i norcini famosi in tutta la Penisola e oltre i confini dell’Italia, nelle corti europee. La diffusione della chirurgia avvenne a Preci intorno al XII secolo quando il concilio lateranense del 1215, vietò ai monaci il suo esercizio. I monaci consapevoli di essere in possesso dei rudimenti per curare alcune specifiche malattie decisero così di condividere le loro conoscenze con il popolo. Nacque la medicina empirica che nonostante subisse gli attacchi degli accademici, conobbe un grande successo sino ad arrivare quasi del tutto intatta al XVII secolo. L’Abbazia di Sant’Eutizio ancora oggi è ricca nelle sale attigue alla chiesa distrutta dal terremoto, di testimonianze dell’arte della chirurgia con l’esposizione di una vasta gamma degli antichi strumenti del mestiere di chirurgo. Solo intorno alla fine del XVII secolo i norcini conobbero un momento di decadenza e di sottostima delle loro capacità soprattutto perché abilissimi nell’arte della castrazione. Si può dire che se per secoli le voci bianche arricchirono le fila dei cori ecclesiastici allietando le corti europee più prestigiose, fu per due fattori principali: il divieto del Papa Sisto V che nel 1588 vietò alle donne di recitare e cantare in teatro e la pratica della castrazione usata nella cura dell’erniotomia eseguita nel caso delle ernie inguinali troppo avanzate. I norcini notarono però che se l’operazione veniva eseguita in età adolescenziale, la voce del ragazzo rimaneva acuta e più dolce simile a quella di una donna, ma con una potenza maggiore. Fu quello il periodo in cui a Roma norcino diventò sinonimo di “castratore”, ovvero di medico di rango minore, se non di uno specialista più simile ad un “macellaio” che ad un medico. Una fama immeritata soprattutto per l’assoluto livello di eccellenza che nei secoli i norcini si conquistarono nella cura della cataratta, nell’estrazione dei calcoli vescicali (litotomia) e nell’erniotomia.

 

 

 

 

 

Claudio Bianconi: Arte, cultura, ma soprattutto musica sono tra i miei argomenti preferiti. Ho frequentato il Dams (Scienze e Tecnologie delle Arti, dello Spettacolo e del Cinema). Tra i miei altri interessi figurano filosofia; psicologia archetipica; antropologia ed etnologia; fotografia-video; grafica, fumetti, architettura; viaggi.