SPOLETO – Il dominio della musica è quello di destare delle sensazioni. E ancora, “se lo desiderate, dichiareremo guerra “all’arte per dilettare” , alla perfezione merlettata delle esecuzioni dove l’anima è assente. (…) La musica deve essere contagiosa, (…) Essa presuppone che voi l’amate tanto da consacrarle la vostra vita (…) del mistero profondo dell’arte, nascerà, forse, in un dato momento sacro dei vostri studi, quel brivido interiore che fa presagire l’approssimarsi della verità artistica” questo il pensiero del pianista svizzero Alfred Cortot (nella foto di copertina dell’articolo), se “affiderete alle vostre dita il compito di trasmettere i vostri pensieri, diverrete un interprete e non un esecutore”.
Il 62° Festival dei Due Mondi si è concluso da due giorni e la città è tornata a camminare lenta. Gli scheletri dei palchi sono stati smontati sotto la pioggia, la gente nei bar si è dilettata con gli ultimi commenti a caldo. È piaciuto, non è piaciuto: lo spartiacque è sempre netto e c’è da dire che molti spoletini, forse per i prezzi elevati dei biglietti, non hanno partecipato al Festival, proprio come accadeva con Menotti.
Dei 64 spettacoli proposti, 12 sono stati dedicati interamente alla musica con l’opera e la serie di concerti (vi rientrano in totale i 16 al Sant’Eufemia e a Casa Menotti, 7 all’Anfiteatro), i 3 balletti ne disponevano collateralmente. Si è perlopiù preferito avere, a parte lo spettacolo di Jean Paul Gaultier e i concerti di Mahmood e Vinicio Capossela, un repertorio di musica classica, contemporanea e jazz. Quest’ultima scelta forse in concomitanza con l’inizio di Umbria Jazz a Perugia.
Tornando a Cortot, quand’è che possiamo dire che questi musicisti ci hanno trasmesso emozioni o che semplicemente hanno meccanicamente eseguito il brano assegnatogli?
Tutti noi avremmo avuto modo di ascoltare in questi giorni tra le vie e in piazza commenti, allusioni, suggestioni, su quanto si stava mettendo in scena al Festival ed ognuno di noi si sarà fatto una propria idea facendo una sintesi involontaria tra quello che gli veniva detto e quello che pensava. È piaciuto, non è piaciuto: il risultato non cambia ma forse un musicista può venirci in aiuto e spiegarci, in base ad un’analisi sull’organizzazione emotiva e percettiva, quali sono le dinamiche che si vengono a creare.
Franco Mussida a tal proposito ha pubblicato per Salani Il pianeta della musica per aprire un dibattito proprio sul dialogo tra quello che percepiamo, quindi i sentimenti e le emozioni che ci suscita un certo ascolto, e la musica come vettore ecologico di senso. La Musica, a cui lui si riferisce sempre con la emme maiuscola, è uno degli strumenti più laici che si conoscano, facendo breccia nella nostra vita affettiva e più intima filtra l’apparenza e pervade quel “Pianeta emotivo” che diventa comune a tutti. L’apparato uditivo che elabora gli input esterni che riceve, anche sotto forma di onde sonore, è superato da un <<sentire>> più forte che risiede, secondo Mussida, in una sorta di fenomenologia della Musica che è “in fondo uno specchio. Lo specchio della nostra organizzazione emotiva”. È così provato che l’effetto, “il clima emotivo”, innescato da un brano musicale può essere voluto e non solo auspicato, anche se più d’una citazione si potrebbe fare sulle sfruttate anime degli artisti che solo lavorano per sé stessi. Potremmo allora dare la colpa o il merito all’organizzatore che ha deciso il repertorio, visto che “i climi emotivi presenti in una canzone che stai ascoltando richiamano emotivamente un tuo stato d’animo. Ed è quello che per esempio provi quanto senti Preghiera in gennaio di De André, la Sonata al chiaro di luna di Beethoven, un notturno di Chopin o Almost Blue di Chet Baker”. Per cambiare quel clima emotivo e far evolvere la narrazione musicale saranno necessari vari interventi melodici. “Vivere a fondo la purezza di un sentimento, cosa che la Musica ti consente di fare, significa vivere quel particolare sentimento slegato da un fatto preciso” racconta nel testo Mussida mentre analizza la struttura emotiva di alcuni brani da Paco de Lucía a Bach.
Proprio di Bach , nello spiegare l’arte della fuga come forma del pensiero musicale, negli anni Trenta Cortot scriveva che “l’allegrezza insistente della fuga risulta dal suo carattere ritmico. (…) La fuga è gaia, ciò era frequentissimo ai tempi di Bach, perché allora il maggiore ed il minore non avevano ancora assunto il significato di gioia e di dolore che noi dopo gli abbiamo dato”.
All’oggettività tecnica del suono il pubblico dunque ne può forse accentuare gli aspetti freddi o commoventi, in ogni caso vi aggiungerà il giudizio personale, mai sospeso, presente.
È per questo che Giorgio Ferrara, direttore artistico del Festival, ha più volte enfatizzato in conferenza stampa – “Sono felice di come siano andate le cose, l’anno prossimo andrà molto meglio” – sui risultati avuti in quest’ultima edizione.
Franco Mussida, Il pianeta della Musica: come la Musica dialoga con le nostre emozioni, Adriano Salani Editore 2019, pagg. 281, euro 15,90