Alice Gosti è un’artista e performer italo-americana, coreografa, ballerina, dj o più semplicemente – come a lei piace definirsi -“architect of experiences”. Perugina, classe 1985, ha studiato alla Washington University di Seattle, specializzandosi in danza e coreografia. I suoi lavori hanno viaggiato tra Stati Uniti, Italia e Germania ottenendo numerosi premi e riconoscimenti.
In vista di LIMINALE, la sua performance online che sarà trasmessa domani sera, sabato 27 febbraio alle ore 21 sulla piattaforma zoom (l’evento con tutte le istruzioni è disponibile al link: www.facebook.com/events/317143389651498/) ci siamo fatti raccontare da Alice le scelte personali e artistiche che l’hanno portata da Perugia a Seattle, cercando di capire come artisti e performer si siano dovuti adattare in questo periodo di emergenza sanitaria.
Nata a Perugia da una famiglia biculturale – padre italiano e madre americana – quanto ha influito il contesto familiare in cui sei cresciuta?
Tantissimo. Mi ha dato sempre l’idea di vivere tra due mondi, tra due lingue, due culture. Questo mi ha permesso di comprendere a pieno di quanto esista un senso di molteplicità in ogni individuo.
SANDFORD&GOSTI: questo il duo artistico dei tuoi genitori, padre architetto, madre grafica. L’arte è stata da sempre presente nella tua vita?
Sì. Sin da piccola ho passato tantissimo tempo tra musei e gallerie. Viaggiavamo molto sia per andare a trovare i parenti che per viaggi di piacere. E in ogni viaggio c’era un museo da vedere. Sono cresciuta sviluppando un occhio artistico. Non è che volessi fare l’artista, ma quando andavo in un museo e vedevo una performance mi dicevo: “Vedi? Questo è un modo in cui la danza può entrare in questi spazi che amo tanto”.
Quando hai capito che la tua realizzazione artistica sarebbe stata la danza?
Non sono mai stata la bambina che diceva “da grande voglio fare la ballerina!”. In realtà il mio sogno era quello di diventare una dj! La danza però è stata una costante nella mia vita. Solo intorno ai 6 anni ho pensato di smettere di ballare. Poi a Perugia aprì Dance Gallery, una scuola diretta da due giovani insegnanti, Valentina Romito e Rita Petrone. La loro passione e il loro modo di vedere la danza mi hanno motivata a continuare. Intorno ai 17 anni, quando con il Dance Gallery abbiamo iniziato a fare cose più professionali, mi sono resa conto che la danza era una parte fondamentale di me.
Quando hai deciso di trasferirti negli Stati Uniti?
A 18 anni, poco prima di finire il liceo, mi sono candidata all’Università di Washington ma avevo fatto anche delle audizioni in altre accademie europee, come LABAN di Londra o il SEAD di Salisburgo e mi avevano tutte accettato. Scelsi con molta lucidità Seattle perché le università americane ti permettono di studiare anche materie diverse dalla sola danza. Non volevo limitare la mia immaginazione e ispirazione, e rimasi particolarmente attratta dal modello universitario americano: ho potuto studiare astronomia, psicologia, video-making, filosofia, letteratura americana contemporanea.
Quale tra questi corsi ha influito nel modo in cui crei la tua arte?
Senza dubbio il corso di arti digitali. Basato su film e installazioni, ha cambiato per sempre il modo in cui creo. In particolare, ha inciso sul mio rapporto con il pubblico. Ho iniziato a interrogarmi di come lo spettatore vive un’esperienza artistica, che sia andare a vedere una performance o una mostra d’arte.
Che tipo di pubblico è il tuo?
In generale non creo per un élite di artisti o per esperti del teatro e della danza; anzi, rifiuto un po’ il concetto di esperti nel campo. Partiamo dal fatto che secondo me la danza è per tutti, per il semplice fatto che noi tutti abbiamo un corpo. Se portiamo all’essenziale la danza, è un corpo. Un corpo che si muove. Ce l’hai tu, ce l’ho io. La triste realtà che ci circonda è che l’individuo molte volte è talmente disconnesso con il proprio corpo che la maggior parte di noi ha paura di accettare qualsiasi relazione artistica o meno con il proprio corpo o con il corpo altrui. Personalmente lavoro con bambini e con adulti, dipende dai progetti. Lavoro anche con persone che stanno uscendo da una condizione di senzatetto o che hanno traumi giganteschi; ed è speciale il fatto che loro trasportino queste emozioni nella danza.
Quanto conta per te il contatto con il pubblico?
Per me è importante che il pubblico possa vivere l’esperienza che ho creato, ma che fondamentalmente co-creiamo. Proprio perché per me il pubblico è e deve essere partecipe, non è un semplice spettatore. Faccio sempre l’esempio di qualcuno che guarda un acquario: la performance di danza, se vissuta in modo passivo, è come guardare dei pesci bellissimi che si muovono. Ma finisce Lì, loro stanno là, confinati in uno spazio. Per me la partecipazione del pubblico è un aspetto importante. Capiamoci: che sia un invito, non un obbligo. C’è chi vuole andare a vedere un acquario. Io, però, cerco di offrire qualcosa di più, un’esperienza laterale alla semplice percezione “passiva”.
Per questo a volte le tue performance durano molto?
Esatto, negli ultimi anni mi sono cimentata in lavori “di durata”. Performance che duravano 4, 5, 24 ore! Durate estreme, sì, ma proprio per cambiare la dinamica che il pubblico ha con l’esperienza che viene posta loro davanti. Io ne parlo in termini di “autonomia” e “democrazia del pubblico”.
Cioè?
Immagina lo spettacolo come un pasto (forse non proprio quello dalla nonna): se non ti piace qualcosa non lo mangi, se sei pieno smetti. Se noi potessimo avere questa relazione con il pubblico che è quella che io cerco di costruire con le mie performance di durata, le dinamiche di potere sarebbero più equalizzate. Se tu hai finito il tuo tempo, lo hai finito: io creatrice non sono triste perché penso che se te ne vai è perché ho fatto schifo, ma anzi sono contenta che tu stai ascoltando quello di cui tu hai bisogno. Se noi potessimo vivere in dei sistemi in cui possiamo ascoltarci ,potremmo avere delle esperienze molto più profonde, legate alla nostra disponibilità emotiva e fisica.
Quanto studio richiedono le tue performance?
Dipende. LIMINALE, per esempio, a livello personale è un percorso che ho iniziato quasi un anno fa. Ero appena atterrata in Italia pochi giorni prima del lockdown totale. Alcuni miei studenti di Boston mi mandano un’e-mail in cui mi spiegano che stavano creando una piattaforma per offrire delle lezioni online di danza sperimentale. Io, che non riuscivo a dormire, ho avuto quest’idea. Sono anni che lavoro creando lavori site specific – infatti raramente mi esibisco in dentro i teatri, preferisco lavorare in ambienti con architetture specifiche – e penso: ora noi ci troviamo in spazi specifici. Sì, siamo nelle nostre case, nelle nostre stanze, ma sono spazi che hanno una storia delle memorie. Quindi perché non provare a usare tutte le strutture, gli esercizi e le filosofie che abbiamo sviluppato per spazi esterni non tradizionalmente teatrali, in spazi interni?
Il settore della danza, in Italia e negli Usa, è secondo te abbastanza preso in considerazione?
E’ da sempre sottovalutato e sotto finanziato, sia in Italia che negli Stati Uniti. Questo è un segno evidente di quanto nelle culture occidentali rifiutiamo il corpo. Devo dire però che nei nove mesi che ho passato a Perugia durante il lockdown ho partecipato a varie iniziative virtuali e per me è stato molto emozionante. Mi sono resa conto di quando è cambiato in meglio il mondo della danza, rispetto a quanto ricordavo.
Dopo LIMINALE hai altri progetti?
Liminale finisce qui. Se poi la porteremo avanti, chi lo sa. Qualcosa bolle in pentola: con la mia compagnia, MALACARNE, stiamo organizzando un grande evento online stile “Telethon”. Realizzeremo una performance di durata che sarà alla base di una raccolta fondi per finanziare i prossimi lavori che andremo a realizzare con la compagnia.
Pensi che porterai qualche progetto anche in Italia?
Assolutamente. Dobbiamo solo aspettare che si tranquillizzi la situazione. Siamo alle primissime fasi di un progetto che vede coinvolte le città terremotate. Non ti nascondo che il mio sogno più grande è che la mia compagnia possa esistere tra l’Italia e gli Stati Uniti!