Nuovo racconto breve di Carlo Favetti: “Cecilia Metella”

Ecco un altro racconto breve di Carlo Favetti per i lettori di vivoumbria.it che vorranno leggerlo in questa rovente estate.

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Cecilia Metella

di Carlo Favetti

Claudio mi aspettava con la sua panda verde quella domenica mattina, di quei primi di Agosto davanti la sede, me ne accorsi subito perché a quell’ ora uscivo per andare alla prima messa  a Santa Maria degli Angeli nel cuore della città. Lui lo sapeva che la domenica mattina per me era tassativa la Santa Messa e la Comunione, ciò lo facevo fin da bambino. Mi avvicino a lui e chiedo cosa stava facendo li proprio in quel punto interdetto per tutti nel parcheggiare in prossimità di una area militare tele sorvegliata. Aveva una espressione fanciullesca, che se lo guardavi attentamente, sembrava un bambino appena cresciuto e invece era responsabile della propria eta’, delle proprie azioni, delle sue scelte di vita, con tutti i suoi pregi e difetti. Per me quel bambino era più che adulto che in soli quattro mesi era riuscito a prendere la patente e ad acquistare  la  prima macchina con i proventi del suo lavoro da artista-studente.  “Sono libero da tutti gli impegni, ho rimandato le prove per l’ Edipo Re, se vuoi possiamo stare insieme tutto il giorno e andare dove ci pare. Anzi ti anticipo che l’ Edipo sarà in scena a Caracalla tra sette giorni segnati la data, voglio che ci sei”.
Ero felice per quella inaspettata proposta, ma prima dovevo andare a messa sa e poi avrei deciso. Quindi ci diamo appuntamento a Piazza della Repubblica all’angolo della fontana delle Naiadi alle 10.
Una bella messa con tanto di coro quella domenica a Santa Maria degli Angeli, chiesa che era officiante solo nei festivi. Il chierico, un ragazzetto sui quindici anni di carnagione olivastra, mi porse la bussola per l’offerta, dal mio borsello tirai fuori 500 lire. Mi guardò soddisfatto per quell’ obolo e mi sorrise, poi terminato la raccolta delle offerte passò di nuovo vicino e mi toccò il fianco con l’asta della bussola. Stranissimo quel comportamento, mi meravigliai per quelle attenzioni da parte di una persona in quell’ambito. Terminato la funzione religiosa, non feci a tempo a uscire che sul sacrato quel ragazzo, non più vestito da chierico, mi venne incontro e molto educatamente mi parlo: “Te sei il carabiniere amico di mio fratello Yuri, ti conosco perché quella sera al Giardino degli Aranci c’ ero pure io anche se non mi hai notato perché ero nascosto”. Rimasi sbalordito, chiesi del fratello e lui mi rispose che aveva trovato un lavoretto in un supermercato in periferia. Lo salutai,  lui mi abbracciò calorosamente, poi ritornà indietro e scomparve tra le arcate all’ interno di Santa Maria degli Angeli. Mi recai di corsa alla fontana delle Naiadi, Claudio era lì, fuori dalla sua macchina a fumare una sigaretta. Eravamo in bermuda, io mi ero messo quelli di ordinanza, una t-shirt verde e sandali, lui bermuda, casacchina alla coreana e sandali, in più un cappellino arancio. “Dove si va? – gli chiedo io – avrei tanta voglia di evadere e allontanarmi verso un luogo solitario dove ci si puo’ distendere sull’ erba, oppure in riva al mare, un lago, Insomma un luogo silenzioso fuori dal baccano della città, per stare un po’ da soli, parlare, raccontarci le cose e conoscerci ancora meglio, te cosa dici?”. E lui: “Non so, avrei pensato di andare ad Ostia Lido ma chissà che invasione ci sarà in spiaggia con questo caldo e di domenica.
Andare all’Appia Antica forse lì sarebbe meglio è quasi campagna, pieno di mausolei, reperti e testimonianze storiche. Andiamo se ti va, ti farò vedere allora il mausoleo di Cecilia Metella. Uno dei più grandi, per buona parte manomesso con aggiunte in epoca medievale e in alcune parti depredato in epoca rinascimentale, utilizzando alcuni reperti per abbellire palazzi e ville di patrizi romani”.
Facciamo quasi un chilometro a piedi sotto il sole cocente sull’ Appia, tra un selcio e l’ altro solo il silenzio scorreva veloce e il profumo dei cipressi inebriava l’ aria con il verso dei merli e i piccoli salti delle gazze che svolazzavano appresso e davanti a me,  verso il mausoleo dei Metelli, tra i cespugli di alloro, di bosso e di rose selvatiche profumatissime. Sulla destra ecco l’ ultima dimora di Cecilia, quello che rimane di uno di quei monumenti grandiosi della Roma repubblicana. Ebbi un sussulto dentro, mi fermai stanco e sorpreso, Claudio mi guarda, vedevo nei suoi occhi la luce di chi aveva raggiunto una meta ambita da tempo. Li c’ era la sua romanità, si volta, va dentro al mausoleo, sale sopra un avanzo di travertino, (si toglie la casacchina la getta in aria  come spesso faceva ) e poi guardandomi fisso negli occhi inizia a declamare Catullo: “Davvero Giovenzio, non c’ era, fra tanta gente, nessuno così distinto che tu ti decidessi ad amarlo, al di fuori di questo tuo ospite, che vien dal mortorio di Pesaro, un tipo più livido di una statua incrostata di oro? E’ lui che adesso ti preme. A me tu osi anteporlo. Ti rendi conto il crimine che stai commettendo? Quinzio, se vuoi che Catullo ti sia debitore degli occhi, di qualcos’altro che sia ancora più caro degli occhi, tu non strappargli quello che ha molto più caro degli occhi, se c’è al mondo qualcosa che è più cara degli occhi“.
Poi, tace, scende da quel reperto, viene verso me in silenzio e continua: “non sono tanto ferrato su questo autore classico ma credo di aver compreso quello che hai declamato, il perché hai scelto questo argomento, perché oggi lo hai fatto, perché vuoi rovinare questa occasione di stare insieme. Vuoi una certezza da parte mia su cosa? Forse sulla scelta che dovrei fare. Questo e’ quello che ho capito in questo momento, non posso scegliere, io non scelgo. Sotto vari aspetti sto bene con te, e lo sai, sotto altri invece con lui, non puoi condensare tutto in te, è quello che vorrebbe anche lui, ed io non posso dividere i sentimenti né per l’uno né per l’altro”.
Avevo visto sul suo volto scomparire all’ improvviso quella bellezza che lo distingueva dal primo momento che lo avevo conosciuto. :”Quindi? Ancora lo frequenti!”. Non sapevo cosa rispondere, non lo frequentavo più Marco, solo per motivi di servizio, e alcune volte cercavo di cambiare turno pur di non incontrarlo.
Era quasi ora di pranzo, c’era un via vai di turisti, e appassionati di trekking, alcuni erano seduti sui prati circostanti a consumare panini e bere bibite, altri si bagnavano i piedi e la testa  presso una fontanella. Lui avanti a me in silenzio, si infila la casacchina. Capivo che era in imbarazzo per il mio silenzio alla sua domanda riferita a Marco, dalla mia bocca usci soltanto una richiesta: “Riportami in città, non voglio stare più qui”.
Mi guarda, mi prende per mano e come si fa con i bambini mi porta al ristorante “Cecilia Metella” poco distante.
Pasto eccellente, così anche il vino, delicato, bottiglie di prima qualità strettamente francesi. Non una parola dalla sua bocca per tutto il pranzo. Usciamo a fumare una sigaretta, sull’amaca, con il dondolio era veramente un piacere essere lì, con quell’ arietta fresca sul viso, i raggi del sole che filtravano dal reticolato del gazebo,  al solo pensiero di averlo turbato mi rendeva nervoso: “Ascoltami un attimo,  – mi sfiora i capelli con la mano e inizia a declamare ancora Catullo – Gellio, come spiegare che i tuoi labbrucci di rosa si fanno più bianchi della neve d’ inverno al mattino quando tu esci di casa e quando alle due ti svegli da un sonno stremato nei lunghi giorni d’estate? Che cos’è, non so di preciso. E’ forse vera la voce che tu agli uomini ingoi ciò che spunta proteso dall’ inguine?. E’ proprio così: lo proclamano le reni spezzate del povero leccone, quelle tue labbra lattiginose di siero“.
Ogni frammento  di Catullo che lui declamava, rispecchiava ogni nostro desiderio  e situazioni vissute. Poi mentre lo guardo e chiudo gli occhi al continuo dondolio dell’amaca, lui ricomincia sempre con Catullo: “Ti credevo, Rufo, un amico: tutto inutile, a vuoto…No non a vuoto: mi sei costato un prezzo terribile. Così ti sei insinuato in me, bruciandomi dentro? Così hai tolto all’ infelice tutto il bene che aveva? Si, me l’ hai tolto. Ahimè ! Tu, crudele veleno della mia vita, infamia della nostra amicizia!“.
Bellissima, ricca di significati intrinsechi. Scoppiava dentro la voglia di un abbraccio per trasmettere il mio apprezzamento per quello che stava dicendo e dimostrando con quei versi del sommo Catullo. Sentivo dentro una sensazione nuova, diversa da tutte le altre volte che ci siamo visti: “Portami via da qui – gli dico – fammi vivere questo momento in un luogo solitario e privo di contaminazioni. Questo luogo magico carico di storia e questo tuo Catullo mi sta mandando fuori da ogni ragione”.
Stava iniziando a pioviccicare, il cielo da sereno che era, divenne, con il passare delle ore scuro e carico di nuvole nere. Cerchiamo di fare in fretta per arrivare alla macchina, ma la pioggia iniziava a scendere con molta abbondanza e a tratti violenta; la macchina ancora era assai distante da noi. Lungo la siepe, dietro agli alti cipressi un capanno di legno, una sorta di rimessa di attrezzi del parco archeologico. Riusciamo ad entrare zuppi di acqua dalla testa ai piedi, la pioggia mista a grandine non era riuscita a spegnere quel fuoco che bruciava come ogni goccia caduta sulla nostra pelle, dentro ai nostri corpi, fuori dalla pelle per ritornare poi al cuore  sospirando pietà al nostro travagliato cielo.
Redazione Vivo Umbria: