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“Morire a Innsbruck”, le memorie di Carla Ponti sullo zio, eroe suo malgrado, Gabriele Crescimbeni

PERUGIA – Carla gode di un privilegio. Un privilegio che si articola nell’elaborazione di una memoria che parte dai ricordi dell’infanzia e approda nelle drammatiche ultime ore di vita dello zio Lelle e nel vuoto che lascia nella giovane moglie Ubalda che, ormai sola, dovrà crescere tre figli, nel flebile supporto di un amico di prigionia di Lelle e dello scambio epistolare con lui che la indirizza nella memoria di un uomo extra-ordinario che rifiutava qualsiasi manifestazione della vita umana più infima, la viltà, l’opportunismo, la furbizia pure nella condizione di necessità dettata dalla fame. Forse la chiave di lettura del romanzo storico di Carla si manifesta nelle teorie dello strutturalismo che ebbe origine proprio nel periodo storico di riferimento della vicenda di zio Lelle, o forse nella psicologia comparata di Carl Gustav Jung che individua nella figura dell’eroe delle fiabe e della narratologia delle favole come il compimento del Sé, passando per l’archetipo dell’inconscio individuale e collettivo. Beati quei popoli che non hanno bisogno di eroi scriveva Bertolt Brecht in Vita di Galileo che da fedele servitore della scienza fu costretto ad abiurare le sue teorie pur di salvare la propria vita. E nel periodo a cavallo delle due guerre del secolo breve di eroi quotidiani se ne manifestarono in moltitudini: povera gente, contadini e proletari analfabeti che furono mandati al fronte a morire per ideali che non appartenevano loro e che non capivano. Furono loro – quegli eroi che la storia riconosce solo come massa indistinta – che segnarono i successi o gli insuccessi politici e militari nei periodi bellici. Per questo Carla è una privilegiata, perché lei può far riferimento a una memoria, a un ideale di eroe che si origina in famiglia già a partire dalla mamma Edvige, innamorata del fratello Lelle e delle conversazioni sui temi letterari che alimentavano i loro incontri. Carla cresce con questo culto che non l’abbandonerà mai e che si manifesta nell’esigenza di un’affermazione del proprio Io, della propria identità che si forma nell’articolazione narrativa della propria saga familiare. In “Morire a Innsbruck” (Futura Edizioni),  Carla Ponti riallaccia i fili della famiglia Crescimbeni di Bevagna ad affondare le radici della propria identità e da lì parte per narrare le intense vicende di zio Lelle, basandosi anche, oltre che dalla sfera emozionale-affettiva personale dalla quale non si staccherà mai definitivamente, sulle testimonianze documentali che riesce a reperire nei cassetti della memoria familiare. Ne emerge la figura di un Lelle che, nonostante faccia di tutto per sfuggire alla retorica dell’eroe, per necessità, onestà intellettuale e intelligenza incarna proprio l’ideale di un uomo che non può sfuggire alle proprie qualità morali e umane, politiche e civico-sociali. E così, in un’epoca in cui il pensiero unico si manifestava nelle logiche del pre-potere fascista, il non fascismo di Gabriele Crescimbeni caratterizza il suo amore per la libertà e per un ideale liberale che continuava a perseguire pur nel periodo in cui ogni espressione che non avesse attinenza con la sopraffazione fascista era indicata come eversiva. Sono due i punti salienti della vicenda politica a sociale di Gabriele Crescimbeni che si contrappongono nel libro: il suo rifiuto a rendere gloria al Duce opponendosi, con la sua assenza in consiglio comunale, al conferimento della cittadinanza onoraria di Bevagna a Benito Mussolini e l’altro fatto controverso che Lelle mai raccontò alla moglie per non farla preoccupare, del rifiuto di un duello d’onore che nacque dalla sfida di un avvocato che in realtà credeva un amico. In quella circostanza Gabriele Crescimbeni fu accusato di offendere l’onore dell’artiglieria dell’esercito, soltanto perché osò difendere i fanti che in realtà portavano il peso sulle proprie spalle degli incontri ravvicinati con il nemico in esiziali scontri sul filo delle baionette. Lelle, eroe quotidiano, che difendeva il valore della massa indistinta di contadini analfabeti che erano costretti a combattere e a morire. Tutto questo non bastò, perché il “centurione” fascista Francesco Damiani l’accusò di ingiuriare l’onore dell’artiglieria della quale faceva parte e lo sfidò al duello. Un duello che Crescimbeni rifiutò per l’insensatezza delle motivazioni su cui maturò l’appello alla sfida, sia per non cedere a una richiesta che si manifestava nell’espressione di una violenza. Qualcuno l’accusò di codardia, ma forse il rifiuto del duello e le successive scuse all’accusatore, furono la scelta più saggia.

“Morire a Innsbruck” si chiude nella testimonianza della prigionia di Gabriele Crescimbeni nel’internamento di Reichenau, fornita da quello che diventerà il suo più intimo amico, l’artista danese Andrea Norregard e tratta dallo scambio epistolare che Norregard avviò con Ubalda. Nel segno della memoria di un uomo straordinariamente dignitoso pur nei morsi della fame e dei disagi della prigionia, viene tratteggiato il profilo di un uomo che amava i libri, i pochi che era riuscito a procurarsi, e che amava la meditazione e la speculazione filosofica-letteraria pur nel tormento della famiglia lontana. Un uomo che alla fine matura la convinzione che non ce la farà a sopravvivere. Così sarà. Morirà nell’ospedale di Innsbruck il 21 febbraio 1944.

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