Balle. Nel caso di Andrea Baracco e di chi ne sta scrivendo, la deontologica separazione anglosassone tra cronaca e critica non è applicabile. Un’intervista con questo regista dopo la guerra senza pace del suo Guerra e pace al Morlacchi di Perugia in piena battaglia Covid, non può pretendere neutralità. Ci si pone, questo sì, dalla parte di chi ha molte attese. L’intervista, pertanto un po’ seduta che leggerete, nasce con queste premesse. Riteniamo, oneste. Tant’è: Andrea Baracco, ha riscritto Otello con il supporto fondamentale del Teatro Stabile dell’Umbria che ne ha fatto la sua produzione.
Dopo l’esordio a Solomeo un mese fa, le tappe a Milano, Bologna, Udine, ecco che stasera, 19 novembre, e poi domani 20 e dopodomani 21 novembre, sarà al Teatro Caio Melisso di Spoleto.
Spoleto, Baracco. Città non banale con quel mitico ponte che Menotti pose fra Due mondi e crocevia di tutte le arti. Che effetto le fa?
“Mi riporta all’università e agli studi del teatro di Luca Ronconi, al suo Orlando e a un festival che sin da quando avevo vent’anni è entrato nel mio immaginario. Ho frequentato Spoleto prima come allievo della Silvio d’Amico e poi come docente della scuola; questa estate sono stato lì con un saggio dei ragazzi, il Coriolano. E’ un luogo del cuore, posso dire, in qualche modo”.
Da come ha inteso portarlo in scena, sembra di poter dire che questo spettacolo si sarebbe potuto chiamare più Iago che Otello. Sbagliamo?
“In parte è vero. Il reale protagonista del testo è lui. Autore, drammaturgo, regista, forse il più grande della storia della letteratura teatrale. A riguardo c’è un aneddoto interessante: pare che questa sia la prima opera in cui Shakespeare abbia rinunciato a fare l’attore nella sua compagnia. Da qui Iago: una sorta di cantor, di grande orchestratore, in scena, dei destini degli altri personaggi”.
“Mi riporta all’università e agli studi del teatro di Luca Ronconi, al suo Orlando e a un festival che sin da quando avevo vent’anni è entrato nel mio immaginario. Ho frequentato Spoleto prima come allievo della Silvio d’Amico e poi come docente della scuola; questa estate sono stato lì con un saggio dei ragazzi, il Coriolano. E’ un luogo del cuore, posso dire, in qualche modo”.
Da come ha inteso portarlo in scena, sembra di poter dire che questo spettacolo si sarebbe potuto chiamare più Iago che Otello. Sbagliamo?
“In parte è vero. Il reale protagonista del testo è lui. Autore, drammaturgo, regista, forse il più grande della storia della letteratura teatrale. A riguardo c’è un aneddoto interessante: pare che questa sia la prima opera in cui Shakespeare abbia rinunciato a fare l’attore nella sua compagnia. Da qui Iago: una sorta di cantor, di grande orchestratore, in scena, dei destini degli altri personaggi”.
Cassio in questa storia e in quella di oggi. Una sorta di colletto bianco politicamente corretto che sa di poter prendere il posto di Otello a svantaggio proprio di Iago?
“E’ un damerino, ambizioso e arrivista. Fin dall’inizio si pone sotto le grazie di Otello al punto che nel testo ci sono persino zone abbastanza ambigue. E’ colui che produce la grande ferita di Iago”.
E Otello?
“E’ un guerriero che male si orienta in tempo di pace e in un contesto borghese. Si mette nella mani di Cassio, un fiorentino illustre, una sorta di parigino odierno, capace di intrattenere, di stare a suo agio nei salotti con tutto quello che ne consegue. Un personaggio molto ambiguo. Molto bello per questo”.
Domanda inevitabile. Il cast tutto al femminile: forse una provocazione per purificare il testo dai riferimenti forzati di cui nel frattempo Otello si è fatto oggetto riguardo, ad esempio, razzismo e femminicidio?
“Più che una provocazione un tentativo di ripulire gli occhi miei e poi degli spettatori da quelle stratificazioni inevitabili che le varie epoche hanno lasciato su un testo classico; tanto più con forzature riferite ai tempi nostri, fatti che Shakespeare non poteva contemplare, come razzismo e femminicidio. Si è portati a piegare il classico all’attualità: a mio avviso, invece, si deve innalzare il testo proprio per il suo valore assoluto e senza tempo piuttosto che abbassarlo alla quotidianità. A Shakespeare interessava indagare la fragilità dell’Uomo e, in questo caso, del soggetto messo da Iago di fronte a se stesso e ai propri abissi che uno tende a nascondere. Con un cast tutto al femminile ci stiamo rendendo conto che è come se la storia di Otello venisse raccontata per la prima volta”.
Stavoltà è stato più buono con le sue attrici rispetto a Guerra e pace?
“Perché le ho trattate male (sorride sorpreso ndr.)? Questo viaggio con un cast al femminile è molto bello. C’è una grande adesione al progetto da parte di tutte loro che ci ha consentito di entrare profondamente nelle dinamiche dei personaggi. Certo, quando si lavora ci possono essere momenti più semplici e più complessi. Chi è alla guida della nave deve guardare più lontano possibile per evitare che si vada contro uno scoglio”.
La frase in cui è stato intransigente nel pretendere una certa recitazione?
“Sono tante in Shakespeare. Se ne devo scegliere una, quella iniziale di Iago nel dialogo con Rodrigo in cui dice: Io non sono quello che sembro e poi quel maledetto di Otello rivolto a Iago quando il dramma è palese”.
Letizia Russo: una bella collaborazione.
“Con lei è possibile confrontarsi su qualsasi tipo di problematica. Un’amica e una compagna di viaggio pur nel massimo rispetto del reciproco lavoro e ruolo. Un ascolto costante in cui le parole sono ormai superflue. Del resto lei è una traduttrice di teatro e per il teatro; non letteraria, dottorale in senso stretto”.
Lei gode, dopo il suo Guerra e pace al Morlacchi, di un grosso credito da parte del pubblico che difficilmente dimenticherà quello che ha visto e vissuto anche per l’emotività dovuta al Covid. Che sensazione proverà nel rientrare in quel teatro?
“Dalla produzione agli attori ai tecnici di quella messinscena, il Morlacchi è stato una mamma che ci accudiva in un momento tragico. In quello spazio siamo rusciti a intravedere un bagliore di possibilità e di vita. In un momento, è bene non dimenticarlo, in cui tutto era fermo. E’ stata l’esperienza professionale e umana più potente che abbia vissuto”.
“E’ un damerino, ambizioso e arrivista. Fin dall’inizio si pone sotto le grazie di Otello al punto che nel testo ci sono persino zone abbastanza ambigue. E’ colui che produce la grande ferita di Iago”.
E Otello?
“E’ un guerriero che male si orienta in tempo di pace e in un contesto borghese. Si mette nella mani di Cassio, un fiorentino illustre, una sorta di parigino odierno, capace di intrattenere, di stare a suo agio nei salotti con tutto quello che ne consegue. Un personaggio molto ambiguo. Molto bello per questo”.
Domanda inevitabile. Il cast tutto al femminile: forse una provocazione per purificare il testo dai riferimenti forzati di cui nel frattempo Otello si è fatto oggetto riguardo, ad esempio, razzismo e femminicidio?
“Più che una provocazione un tentativo di ripulire gli occhi miei e poi degli spettatori da quelle stratificazioni inevitabili che le varie epoche hanno lasciato su un testo classico; tanto più con forzature riferite ai tempi nostri, fatti che Shakespeare non poteva contemplare, come razzismo e femminicidio. Si è portati a piegare il classico all’attualità: a mio avviso, invece, si deve innalzare il testo proprio per il suo valore assoluto e senza tempo piuttosto che abbassarlo alla quotidianità. A Shakespeare interessava indagare la fragilità dell’Uomo e, in questo caso, del soggetto messo da Iago di fronte a se stesso e ai propri abissi che uno tende a nascondere. Con un cast tutto al femminile ci stiamo rendendo conto che è come se la storia di Otello venisse raccontata per la prima volta”.
Stavoltà è stato più buono con le sue attrici rispetto a Guerra e pace?
“Perché le ho trattate male (sorride sorpreso ndr.)? Questo viaggio con un cast al femminile è molto bello. C’è una grande adesione al progetto da parte di tutte loro che ci ha consentito di entrare profondamente nelle dinamiche dei personaggi. Certo, quando si lavora ci possono essere momenti più semplici e più complessi. Chi è alla guida della nave deve guardare più lontano possibile per evitare che si vada contro uno scoglio”.
La frase in cui è stato intransigente nel pretendere una certa recitazione?
“Sono tante in Shakespeare. Se ne devo scegliere una, quella iniziale di Iago nel dialogo con Rodrigo in cui dice: Io non sono quello che sembro e poi quel maledetto di Otello rivolto a Iago quando il dramma è palese”.
Letizia Russo: una bella collaborazione.
“Con lei è possibile confrontarsi su qualsasi tipo di problematica. Un’amica e una compagna di viaggio pur nel massimo rispetto del reciproco lavoro e ruolo. Un ascolto costante in cui le parole sono ormai superflue. Del resto lei è una traduttrice di teatro e per il teatro; non letteraria, dottorale in senso stretto”.
Lei gode, dopo il suo Guerra e pace al Morlacchi, di un grosso credito da parte del pubblico che difficilmente dimenticherà quello che ha visto e vissuto anche per l’emotività dovuta al Covid. Che sensazione proverà nel rientrare in quel teatro?
“Dalla produzione agli attori ai tecnici di quella messinscena, il Morlacchi è stato una mamma che ci accudiva in un momento tragico. In quello spazio siamo rusciti a intravedere un bagliore di possibilità e di vita. In un momento, è bene non dimenticarlo, in cui tutto era fermo. E’ stata l’esperienza professionale e umana più potente che abbia vissuto”.