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Leonardo Lidi e il suo vocabolario aggiornato per rileggere i classici

Su Leonardo Lidi ha puntato da tempo gli occhi il pubblico che va a teatro, la cartina tornasole migliore per avere il riscontro del lavoro che fai. E quando gli spettatori sono, ad esempio, anche quelli del Festival dei Due Mondi che della questione se ne intendono, allora vuol dire che a poco più di trent’anni, è nato a Piacenza nel 1988, hai preso la strada giusta.
Naturalmente non poteva mancare, tra così tanti consensi, il Premio della Critica assegnatogli l’anno scorso dall’Associazione Nazionale Critici di Teatro.
Non basta. Lidi è ormai un “habitue” della Biennale di Venezia dove ha ottenuto i suoi bravi riconoscimenti. E ha pure i piedi piazzati stabilmente, per l’appunto, negli Stabili. In quello di Torino è vicedirettore e coordinatore della Scuola per Attori diretta da Valerio Binasco; mentre quello dell’Umbria ha già prodotto due suoi spettacoli: La città morta e La signorina Giulia.
Quest’ultimo presentato in anteprima assoluta all’ultimo Festival di Spoleto (nelle foto di Lorenzo Porrazzini) e che torna in Umbria toccando numerosi teatri. Dopo il Comunale di Narni, le recite proseguono a partire da stasera al Teatro Morlacchi di Perugia dal 24 al 28 novembre, dal 30 novembre al 3 dicembre al Secci di Terni, il 5 dicembre al Teatro Ronconi di Gubbio, il 7 dicembre al Teatro Menotti di Spoleto, domenica 12 dicembre al Comunale di Todi, per finire domenica 27 febbraio al Mengoni di Magione.
Di questo e di molto altro, come siamo soliti fare, abbiamo parlato con Leonardo Lidi.
A tanti, credo di poter dire, ha consentito con il suo adattamento de La città morta (nelle foto), una rilettura di D’Annunzio coinvolgente, sorprendente. Non facilissima, sulla carta. Come ha fatto?

“Non vengo da studi classici e ho utilizzato il teatro per approfondire la conoscenza dei grandi autori. Un corso di recupero divertente. D’Annunzio parte da una richiesta di Antonio Latella quando era direttore della Biennale e voleva uno spettacolo sulla censura. Ho pensato di partire da un testo che non era stato censurato ma autocensurato dall’autore stesso”.
Autocensurato da D’Annunzio in che senso?
“Lo riteneva il fallimento artistico totale di un testo che in effetti non aveva mai funzionato in teatro. Quindi ho ridicolizzato e portato all’estremo questo suo concetto”.
Veniamo a La signorina Giulia?
“E’ tutt’altra cosa. Il testo è di August Strindberg e sono contento che rispetto a La città morta il pubblico possa rapportarsi con una messinscena totalmente differente e che proprio per questo vale anche per il mio percorso”.
Cosa si deve aspettare lo spettatore da questa sua Signorina Giulia?
“La sincerità con la quale personalmente ho affrontato l’opera di Strindberg che a me pare racconti molto della situazione contingente che ritiene la nostra generazione dei trentenni incapaci di essere protagonisti. Qui si parla di tre giovani che non riescono a prendere il toro per le corna e a mettersi al centro del proprio progetto”.
Un limite generazionale quanto legato al contesto?
“Nella mia professione vedo molti giovani rimanere ‘vice’, secondi, in attesa che il ‘padfre’, il maestro li possa collocare nel sistema professionale. Si sta come in un eterno apprendistato con alla base il relativo sfruttamento derivante dalla giovane età”.
Può diventare un alibi per registi e attori?
“E’ l’altra faccia della medaglia. Di questo parla La signorina Giulia quando il conte padre si toglie di mezzo e in quell’assenza si compie il massacro”.
Di mezzo ci si è messa pure la pandemia. Quanto pesa e peserà sulla ripartenza?
“Personalmente sono convinto che alla fine a contare siano sempre e soltanto gli spettacoli. Se hanno il giusto impatto puoi agire, come cavallo di Troia, all’interno delle attuali logiche dello spettacolo”.
Fatti e non lamenti?
“E’ un interrogativo che mi sono posto al di là delle pur giuste discussioni all’interno di tavole rotonde su riforma e controtattiche ci sono state. Non è che noi registi dovremmo pensare piuttosto a come ripartire a livello qualitativo?”.
Che risposta si è dato?
“Che la trappola è scattata. Nel senso che nella maggior parte dei casi si tenta di tornare a parlare come prima della pandemia che, invece, ha modificato l’alfabeto”.
Cosa impone al teatro questo nuovo alfabeto?
“La lettera ‘a’ di agire nel presente. Esistiamo se sappiamo dialogare con il pubblico. Ora”.
Il valore del “passato”? 
“Vale come studio. Come trampolino di lancio verso il futuro. Il lavoro funziona se noi agiamo portandoci avanti. Questo vale anche per gli attori. Ho investito su alcuni di loro che sono giovani, bravissimi come Giuliana Vigogna, Christian La Rosa, Ilaria Falini, Mario Pirrello. E non è che se mi serve il ruolo da protagonista ne prendo uno più famoso. Scelgo loro, conto su di lore”.
Esordi: lei ha interpretato Socrate, Agamennone, Amleto. Cosa resta?
“Tanti interrogativi. Il percorso da attore ha senza dubbio aiutato a far crescere il regista. Devo dire che l’ho sempre saputo e questo giudicarsi dall’interno ha comportato qualche problema. Tant’è che non so se mi prenderei nei miei spettacoli”.
Il suo prossimo “corso di recupero” dei classici su cosa verterà?
“Antonč Čechov”.
Niente male.

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