I nuovi decreti hanno letteralmente riscritto gli spazi. Oggi qualsiasi bar ha una linea che delimita l’ingresso e alcuni negozi elaborano, con nastro colorato, un intricato percorso per evitare la ressa. Ogni volta che osservo queste disposizioni mi vengono in mente le croci di nastro adesivo bianco applicate sul palcoscenico. Chiunque ci sia stato sopra almeno una volta sa bene di cosa parlo, per gli altri: servono a segnalare all’attore dove fermarsi per essere a favore di luce, oppure fungono da riferimento utile ad articolare il movimento in scena. Di linee che dicono “ehi amico, occhio a dove vai!”, oggi, è piena ogni città italiana. Quindi sono sicuro che molti attori si trovino a proprio agio in questo groviglio. Eppure, a partire dalla riapertura dei teatri, sono più le regole ad entrare in teatro dal mondo esterno che non vice versa: nuove difficoltà che potrebbero riscrivere i modi di fare teatro.
Prima di tutto l’attore deve indossare la mascherina in prova e in scena. Già questa è una triplicazione delle difficoltà. Uno dei fondamentali per qualsiasi attore, infatti, è la respirazione che, come tutti ormai sappiamo, con questo dispositivo è notevolmente ostica. Infatti, se questo è vero per le azioni più quotidiane (andare a fare la spesa o entrare in un negozio), figuriamoci per un monologo, una lettura o, ancora, un dialogo serrato. Lascio, poi, alla vostra immaginazione le numerose difficoltà di ballerini e performer che utilizzano il corpo, e quindi la respirazione, in modo massiccio.
L’attore può togliere la mascherina solo stando a un metro di distanza. Quindi niente contatto fisico (che anche con la mascherina deve essere limitatissimo). Baci, sesso, abbracci, pacche sulle spalle, strette di mano cordiali e contatto di corpi in generale sono banditi, a meno che non si trovi un nuovo modo. Ed è forse proprio qui che si può assistere ad interessanti soluzioni registiche: Giulietta che fa il suo monologo dal balcone di un grattacielo o Don Giovanni che seduce una donzella, osservandola voyeuristicamente dai palchi con un binocolo d’opera.
Sicuramente la distanza di un metro – valida anche per gli spettatori – è uno dei simboli di questo travagliato periodo e il teatro ha onere e onore di poterlo raccontare, in quanto testimone della società. Si formula, così, un paradosso stimolante: lo spazio-comunità per eccellenza che applica la regola del distanziamento sociale. Una riflessione su cui molti artisti hanno già cominciato e potrebbero cominciare ad elaborare un processo creativo. Il famoso slogan governativo “distanti ma uniti” sembra, così, perdere un po’ di retorica.
A metterle insieme le nuove regole sono davvero molte, tanto che mi ritorna in una bella frase di Eduardo De Filippo: “Per fare buon teatro bisogna rendere la vita difficile all’attore”. Ed è, in effetti, un concetto che si riverbera nel lavoro di molti registi. Perché solo con le difficoltà l’attore è in grado di ottenere una verità assoluta, involontaria e naturale. Può accedere al suo atletismo e spingerlo al massimo. Sono le difficoltà ad essere carburante per il teatro. Così nasce l’arte in scena.
Questo bel discorso si scontra, però, con la realtà dei fatti. Se il nuovo fare teatro può trovare stimoli e carburante creativo per molti attori, non è così per coloro che vedono nel contatto fisico il nucleo irrinunciabile del proprio lavoro. Per tacere del fatto che le limitazioni valgono – come per altri settori, ma con impatti sempre differenti – a trecentosessanta gradi sul mondo produttivo del teatro. Le casse e le sale che per tre mesi sono rimaste vuote, ora dovranno accontentarsi di essere solo mezze piene per rischiare altri stop di natura economica (forse irreversibili)? Sono giustissime anche queste obiezioni.
Forse, però, bisogna tornare ad affidarsi alla storica intraprendenza dei teatranti e dei teatri. Gli stessi che all’epoca delle limitazioni di generi drammatici (le celebri patent inglesi) si ingegnavano per fare qualcosa che unisse più forme creando cose nuove, oppure il coraggio dei molti comici italiani che hanno conquistato più volte il pubblico francese da attori emigrati, il massimo della marginalità e della limitazione. Insomma tutta quella tradizione che mette in bocca quelle parole ad Eduardo. Capisco e approvo coloro che non accettano di riaprire a queste condizioni, ma hanno tutto il mio sostegno, i miei soldi e la mia curiosità di spettatore coloro che, nelle difficoltà, cominciano a riaccogliere una comunità bisognosa di rivedersi. Chissà cosa potrebbe accadere stavolta.
Foto: Fondazione Eduardo de Filippo