PERUGIA – L’opportunità di parlare con Roberto Andò consente, anzi richiede, di limitare al minimo indispensabile l’attacco dell’articolo tanta è la densità dei concetti che emergono dalle risposte alle domande. Pertanto la comunicazione telegrafica è che da stasera, mercoledì 14, fino a domenica 18 febbraio per la stagione del TSU al Morlacchi di Perugia andrà in scena la sua Clitennestra tratta dal romanzo di Colm Tóibín “La casa dei nomi”.
In scena: Isabella Ragonese, Ivan Alovisio, Arianna Becheroni, Denis Fasolo, Katia Gargano, Federico Lima Roque, Cristina Parku, Anita Serafini, coro Luca De Santis, Eleonora Fardella, Sara Lupoli, Paolo Rosini, Antonio Turco.
Di questo e altro, come nostra consuetudine, parliamo in questa intervista.
– Condividiamo lo stesso anno di nascita, 1959. Da europei di quella generazione la nostra percezione di vendetta legata ai conflitti possiamo farla risalire con una certa contezza all’invasione dell’Ucraina, all’attacco a Israele, alla reazione a Gaza: in questo senso come vede la sua Clitennestra?
Ci metterei anche i Balcani, in mezzo. In effetti tutto ciò è uno dei motivi che mi ha richiamato il testo di Tóibín. Pur riscrivendo la storia dell’Orestea e la tragedia degli Atridi, fa però uno spostamento che riguarda soprattutto Clitennestra fondamentale: non legittimando più il sacrificio come qualcosa che può essere avallato dagli dei, in qualche modo diventa un delitto. E questo cambia tutto: sia rispetto alla sensibilità con cui noi vediamo i fatti narrati nella tragedia, sia rispetto alla nostra sensibilità di spettatori di oggi nel rivedere siz il momento in cui Ifigenia urla sia la disperazione di Clitennestra. Quel momento richiama tante altre situazioni. Non dico in generale i femminicidi, ma tanti altri esempi. La lente con cui Tóibín ci permette di vedere fatti che noi conoscevamo perché sono archetipi della dimensione umana, diventano estremamente vivi, vividi, perché ci sembrano vicini. La catena di vendette, che è la storia degli Atridi, assume un altro significato: ed è quello dell’incapacità di uscire dalla logica della vendetta, di spezzare la catena per cui se l’hanno fatto i nostri padri dobbiamo continuare a farlo noi. Ed è ciò che continua ovunque, anche in Israele, anche in Palestina.
– La scelta di Isabella Ragonese per interpretare Clitennestra ?
E’ un’attrice che conosco bene, ho fatto con lei il film su Letizia Battaglia che ha avuto vicissitudini mortificanti fin da giovanissima, una figura un po’ da tragedia greca. E quindi ho capito che Isabella era un’attrice molto matura, che poteva permettermi di fare questa Clitennestra. Più giovane rispetto a come di solito viene rappresentata, ma certamente più vicina alla mia visione e a quella di Tóibín: una donna nel pieno della sua vitalità e del suo desiderio di essere donna.
Una donna che, da sottomessa, vediamo ribellarsi fino a escogitare la vendetta e diventare potente. Una lettura interessante, oggi, rispetto al tema del ruolo stesso che solitamente viene assegnato a Clitennestra.
– Cosa deve accadere perché Clitennestra, ad oggi, possa placare la sua sete di vendetta?
Sul piano del diritto è un’interrogazione che si sono posti anche i giuristi. Ci sono moltissimi studi che utilizzano Clitennestra per aggiornare questo la tematica della vendetta, in qualche modo legittimandola.
L’unico modo è darle giustizia senza che se la dia lei. Cosa che dovrebbe far la società. In realtà Clitennestra si trova in una specie di transizione, di passaggio, di dissolvenza epocale. In un certo senso noi sappiamo che l’Orestea segna anche la nascita del diritto.
– Qual è lo spirito giusto per assistere alla sua Clitennestra?
Abbandonarsi al flusso di immagini e di parole che in qualche modo rapiscono e che provocano, per quello che ho potuto vedere, un’attenzione assorta, senza però perdere il senso del ragionamento.
– Lei ha scritto sceneggiature per il cinema, per il teatro, per la lirica, per la tv. Come si è posto rispetto a questi diversi canali espressivi?
In generale considero la scrittura un aspetto importante del mio lavoro; scrivo anche dei romanzi e ho cominciato proprio dalla scrittura. Con lo stesso parametro mi rapporto ad altri autori per scegliere un testo per il teatro. Per la tv ho scritto solo una sceneggiatura, per Letizia Battaglia, e ho proceduto come di solito faccio per un film, certamente consapevole della platea più ampia a cui mi sarei dovuto rivolgere.
– Umbria. Lei è stato direttore artistico anche delle Orestiadi di Gibellina. Il suo rapporto con Alberto Burri e il suo Cretto?
– Purtroppo non ho conosciuto personalmente Burri. Rispetto alla sua straordinaria opera ho sentito i racconti di Ludovico Corrao che da sindaco e politico ha contribuito alla rinascita della Valle del Belice: mi diceva che Burri era ossessionato dal fatto che potesse crescere l’erba su quella distesa che voleva mantenesse invece il bianco immacolato. Per me è uno straordinario esempio di land art.
– Ha ricevuto un’infinità di premi. Come ci si rapporta?
Sono un sigillo per ciò che hai fatto ma allo stesso tempo mi sento un po’ distante da loro. Uno dei libri che preferisco è “I miei premi” di Thomas Bernhard in cui racconta certi aspetti assurdi, paradossali che derivano dal premio che a volte creano momenti di grande equivoco. Penso che il premio più importante sia il rapporto col pubblico.
Foto di copertina: Lia Pasqualina