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Intervista a Paolo Fresu che domani sarà in concerto in duo con Uri Caine a Castiglione del Lago

CASTIGLIONE DEL LAGO – Lo scenario è quello ineguagliabile della Rocca del Leone di Castiglione del Lago. Lì, domani, sabato 21 settembre, grazie a Patrizia Marcagnani e nell’ambito delle Sergino Memories in ricordo dei dieci anni della scomparsa del promoter perugino Sergio Piazzoli, la tromba di Paolo Fresu incontrerà il pianoforte di Uri Caine, due musicisti “onnivori”, capaci di spaziare in qualsiasi ambito musicale, dalla musica classica, al pop, dalla canzone italiana al folk. Ispirato al nuovo album “Improvvisi”, il duo darà vita ad una performance di sicuro interesse. Ne parliamo con lo stesso Paolo Fresu.

– Con Uri Caine è un dialogo che si prolunga da più di vent’anni, sin da quando vi siete incontrati al festival di Berchidda nel 2002, se non sbaglio, vero?
Sì, 2002, credo, Uri è un musicista che ho sempre molto amato, molto seguito. E poi quell’anno lo invitai al Festival di Berchidda e lo invitai a fare un pezzo con lui, e da lì in poi l’idea di provare a suonare in duo. Le prime cose le facemmo al mitico Club La Palma di Roma e da allora non ci siamo più lasciati, quindi ben quattro dischi all’attivo, un’ultima tournée americana che si è conclusa proprio la settimana scorsa tra Washington, Miami e Boston e adesso ci riuniamo la prossima settimana per un nutrito tour di concerti che faremo in Italia tra Castiglione, poi saremo anche in Valenza Po, poi saremo a Brescia, saremo a Roma, saremo a Rivoli e chiuderemo in Marocco, a Casablanca. Quindi un gruppo che suona spesso, siamo ormai 22 anni insieme, tant’è che il disco che è uscito in maggio “Legacy” che è un po’ un progetto-anniversario festeggia sostanzialmente i 40 anni del mio quintetto storico, ma anche i 22 anni con Uri e i quaranta anni del quartetto Devil.
– Quanto è importante la cultura musicale nella vostra musica e nel jazz in genere?
In particolare con Uri è molto, molto importante, perché la cosa che ho apprezzato in lui, quando ancora non lo conoscevo personalmente, era questa incredibile aperura verso tutte le musiche e in particolare verso la musica classica. Non è che sia stato un precursore, ci sono tanti esempi di jazzisti che hanno saccheggiato il repertorio della musica classica, alla quale il jazz ovviamente deve tantissimo, se non altro perché il jazz nasce dopo la musica classica, quindi è normale che nel jazz ci sia tanto della musica classica sino al Novecento. Ma avevo ascoltato questo disco, Le Variazioni Goldberg di Bach, fatte da lui, che sono una cosa assolutamente straordinaria di humour, di felicità di solarità, per cui mi è sempre molto piaciuta questa passione per il mondo classico, Che è un po’ la stessa mia.
– Infatti. Ad esempio ci ricordiamo qua in Umbria il “suo” Laudario di Cortona…
Io ho iniziato a lavorare sul mettere insieme repertori diversi dopo Uri. Tant’è che ho fatto il Laudario di Cortona per la Sagra musicale umbra, la Norma di Bellini che ha rifatto anche in un progetto discografico, ma anche tanti brani qua e là, da Claudio Monteverdi a Haendel: Molte di queste cose oggi le suoniamo insieme a Uri, tant’è che il disco precedente a questo ultimo che si chiama “Two Minuettos” che è uscito per la mia etichetta discografica (Tuk Music) si chiamava così perché apriva con un minuetto il Sol maggiore di Bach e chiudeva con un minuetto in Sol minore sempre di Bach. Per cui diciamo che siamo due musicisti che hanno affinità sotto il profilo musicale e anche di quello della curiosità. Per cui suoniamo di tutto, passiamo dalle canzoni del pop del Novecento, alle canzoni italiane, alle nostre composizioni…
– Musica totale, direbbe Gaslini…
Musica totale sì, perché riteniamo che non sia tanto importante quello che si suona, ma come lo si suona. E quando si sta insieme per decine di anni come nel caso del mio quintetto, la libertà di respirare la musica in un determinato modo la si conquista. La libertà non è un regalo mai, lo sappiamo, soprattutto oggi tra l’altro, ma la libertà creativa la si conquista con gli anni, cioè solamente se con un gruppo si lavora per molti, molti anni, si acquista poi quella libertà, quel respiro libertario, che ti permette di prendere qualsiasi brano, che sia classico, di jazz, di pop che nel momento in cui lo tocchi lo fai diventare un po’ tuo, mettendoci quello che hai, quello che sei, però rispettando anche quello che è la genesi. Questa è la libertà da conquistare, la chiamo così perché la si acquista solamente quando si lavora insieme per così tanto tempo che poi si crea una sinergia che non è soltanto musicale, ma anche umana, cioè nascono delle cose in cui ognuno si fidi dell’altro e questo ci permette anche, come dire, teoricamente per mano di buttarci da un baratro sapendo che approderai in un luogo sicuro e questo permette di rischiare, di aprire porte nuove. Tutto quello che fa sì che dopo 22 anni si provi ancora un estremo piacere nel suonare insieme.
– Ci sono, secondo me, tre elementi fondamentali che caratterizzano la vostra partnership, la creatività e la visionarietà, l’improvvisazione e in fin dei conti la libertà con cui affrontate ogni ambito.
Sì, questo è dal mio punto di vista la cifra che contraddistingue il duo con Uri. Anche in questi giorni abbiamo suonato nei concerti americani, abbiamo suonato anche nell’auditorium della Berklee School, abbiamo fatto anche una master per gli studenti, diciamo quello che salta gli occhi, quello che viene in qualche modo, che colpisce di più è proprio questa grande apertura, questo passare da I Love You Porgy di Gershwin, da Chick to Chick a Claudio Monteverdi, poi magari chiudere il concerto con Night in Tunisia di Dizzy Gillespie, poi una parte totalmente improvvisata, perché l’ultimo disco che abbiamo fatto, tutt’e tre i dischi sono totalmente improvvisati, è stata veramente una scommessa vinta. Quindi c’è anche l’aspetto della musica totale, tornando a Gaslini.
– Paolo Fresu non ha mai abbandonato la sua matrice davisiana, riconosce ancora in Miles Davis il suo più grande maestro?
Miles Davis e Chet Baker: per me sono due figure estremamente preziose che molto mi hanno insegnato, direi che mi hanno insegnato e segnato. Oggi la mia musica è la mia e credo che tutti riconoscano il mio suono, anzi mi piace pensarlo, ma al di là di questo suono, questa personalità è anche frutto dell’addizione di quei due personaggi. Non è casuale che stia iniziando il 7 di ottobre, una grossa produzione teatrale che faccio con il Teatro Stabile di Bolzano che girerà per l’Italia (terza produzione che faccio con lo Stabile di Bolzano) e che questa sia su Miles Davis, è quasi una notizia in anteprima e la prima sia stata quella su Chet Baker, la prima si chiamava Tempo di Chet che arrivò anche a Perugia, tra l’altro. Questa trilogia si chiude oggi con Miles, perché Miles e Chet sono due figure importanti, oserei dire non soltanto per me o per i trombettisti, ma per tutti coloro che si occupano di jazz.

– La vostra intesa è quasi telepatica, l’interplay è totalizzante, ma qual è il segreto?
Il segreto è il rispetto, il segreto è l’ascolto. Credo che queste siano le due cose importanti, però quel rispetto significa anche l’ascolto. Un piccolo esempio: quando saliamo sul palco e facciamo le prove del suono, Uri si siede al pianoforte, io intanto attacco le mie cose, la mia elettronica, eccetera. Nel momento in cui io faccio una nota, una, con la tromba, lui si ferma in quel momento lì, si ferma totalmente e poi magari riprende, però in quel momento lui si ferma perché dà una grande importanza all’ascolto, all’ascolto del suono. Per cui quando suoniamo c’è un grande rispetto l’uno dell’altro e questo si materializza attraverso l’ascolto. L’ascolto può essere suonare, ma anche non suonare: dici (suoni) una cosa, l’altro aggiunge un pensiero, aggiunge una riflessione che tu poi riprendi. E’ un momento storico in cui l’ascolto stranamente manca, ci si grida tutti addosso, si parla tutti addosso, mi viene da pensare che se fossimo in grado più di ascoltare l’altro e di rispettarlo e di lasciare anche a lui lo spazio di interazione, probabilmente riusciremmo a comprenderci di più. Trovo che la musica da questo punto di vista sia una straordinaria metafora del presente. Vivessimo tutti la musica, la vita, come vorremmo vivere anche la musica noi artisti, magari chissà che questo mondo non fosse un po’ migliore.

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