Intervista a Lucia Calamaro: “Ecco perché ripropongo dopo 15 anni la mia pièce sulla depressione”

PERUGIAConcita De Gregorio, Carolina Rosi, Mariangeles Torres e, di fronte a loro, “L’origine del mondo. Ritratto di un interno” di Lucia Calamaro, uno dei testi teatrali contemporanei tra i più significativi del nostro tempo perché indaga il male oscuro.

Una rilettura che il Teatro Stabile dell’Umbria propone al Morlacchi di Perugia da stasera, 6 novembre, a domenica, a 15 anni di distanza dalla prima rappresentazione. E che, pertanto, richiede un approfondimento sui perché di questo riallestimento, proprio alla Calamaro con la quale parliamo, come nostra consuetudine, di questo e altro.

– Perché riproporre dopo 15 anni questa messinscena?
Per due motivi: uno è contenutistico. Quando ho scritto “L’origine del mondo”, diciamo che la depressione non era proprio materia teatrale, né tanto cinematografica. Magari ce l’avevamo in tanti dentro, ma se ne parlava poco, comunque molto meno rispetto ad ora.
L’altro motivo è il contesto: essere contemporanei del proprio secolo è sempre molto complesso; detto ciò, questo inizio di terzo millennio che doveva essere foriero di grandi cambiamenti, capace di oltrepassare le scorie e le contraddizioni del Novecento che la nostra generazione ha vissuto, è difficile da abitare. Talvolta penso che vorrei essere nel 2700 e guardare al 2024 dicendo: “ah che carini”, con nostalgia.
– E nel contesto, nel frattempo, vanno messi in conto Covid e post pandemia…
La nostra generazione non ha, almeno per il momento, conosciuto la guerra come accaduto per i nostri padri e per le generazioni passate. Il Covid ha posto però ciascuno di noi di fronte a nuovi drammi collettivi e individuali generati dalla pandemia. Ritengo che la depressione sia come il pane: tutti ce l’hanno nel loro menu esistenziale e questo è il momento di riparlarne e di non sentirsi soli nel proprio malessere psichico. Personalmente vorrei fare una battaglia affinché la psicanalisi, la terapia, sia passata col ticket dal medico generalista. Non capisco, vista la grandezza del fenomeno, perché le cure mentali non rientrino dentro questo ambito. La mia messinscena riappare in un momento in cui il grado di depressione è talmente alto che il disagio mentale deve essere considerato cosa pubblica e non privata.
– Anche perché nel frattempo, rispetto al primo allestimento, lei ha fatto notare nelle sue note di regia che nel 2011 era impensabile immaginare che nel 2020 la depressione sarebbe stata dichiarata dall’Organizzazione mondiale della sanità la malattia più diffusa al mondo.
Vero, ma certo è che nel 2011 era ampiamente evidente questa impossibilità, diciamo pure invivibilità, dei rapporti umani e dell’esistenza così come la sperimentavamo.
– Tornando al Covid e al contesto che ne è seguito, quali le ripercussioni sui giovani, sui nostri figli?
Noi non possiamo proteggere i figli dalla storia e loro ne hanno attraversato un pezzo davvero buio, difficile, un brutto pezzo di storia. Poteva essere una guerra, come per le generazioni passate. È stata una pandemia. L’hanno vissuta e tutti sono caduti nei loro baratri fatti di isolamento, soprattutto di assenza e impossibilità di contatto. Ecco, penso che soprattutto la sospensione del contatto abbia creato dei muri sociali enormi. Solitudine che ha reso viva la depressione.
– Depressione che lei esplicitamente sostiene si può superare.
Certamente. Questo è il messaggio che intendo dare. Quello che dice questo spettacolo, alla fine, ci tengo a dirlo, è che non sei condannato a stare lì da solo; costretto a morire nella tua tristezza. Ci si può far aiutare e, in questo senso, ribadisco la necessità di chiedere un aiuto che venga da chi deve curare gli interessi pubblici, della società che governa.
– Che nel caso dei ragazzi si potrebbe tradurre nel supporto psicologico nelle scuole…
Sì, ma occorre considerare che ci può essere una forma di vergogna nel giovane, un senso di disagio da superare.

– Torniamo allo spettacolo. La scelta delle tre attrici: iniziamo da Concita De Gregorio?
Sono andata a trovarla a casa e gironzolava spaesata tra una madre iper energetica che voleva fare tutto e un figlio dall’occhio un po’ preoccupato sia per la madre che per la nonna. Me la sono trovata lì, Concita, semi impigiamata con questa mamma che chiedeva ossessivamente: vuoi questo, vuoi quell’altro, ti faccio un involtino? Alle quattro del pomeriggio? No! E il figlio che mi guardava. Insomma, questo il contesto. “Dio mio – mi sono detta – questa è una visione epifanica, è proprio L’origine del mondo!”. L’ho proprio detto lì, a Concita, a voce alta. Anche perché per quanto mi riguarda poter fare casting spontaneo è bellissimo, alla Fellini che prendeva le persone per strada perché quell’energia è lì, la vedi. Concita era già pronta. E lei che è comunque una kamikaze della vita, ha detto: “certo, certo facciamolo”.

– La scelta di Carolina Rosi e Mariangeles Torres?
Tre anni fa Guido Torlonia che è un amico comune mi porta a casa di Carolina per comprare l’olio. Vedo questa donna con un’energia e un carisma straordinari. Entrava lei nella stanza e dovevamo spostare i muri, la occupava tutta, noi non c’entravamo più. Anche in questo caso mi sono detta che avevo bisogno di questa donna “sposta montagne”.
Con Mariangueles ci fu un incontro tanti anni fa, nel 2016, avevamo anche fatto un po’ di palestra e mi colpì la sua disciplina e il ruolo di Mariangeles la richiede perché è molto complicato: fa la figlia, fa l’analista, poi fa l’analista che cresce, fa la figlia grande… Serviva qualcuno che riuscisse a passare con metodo e perizia da un ruolo all’altro, un’attrice di mestiere. E, quindi, ecco qua Mariangeles. Devo dire che sono molto fiera delle mie tre signore.
– Nelle note di regia lei cita Samuel Beckett: “Non posso continuare, bisogna continuare, allora continuo”. Le propongo un’altra citazione della psicanalista austriaca Melanie Klein che dice: “La radice della creatività si ritrova nel bisogno di ricostruire l’oggetto buono distrutto nella fase depressiva”. E’ un po’ anche questo il senso di questo suo lavoro?
La verità? Dopo anni di adesione totale a questa visione psicanalitica del reale interno dell’umano, alla quale ho pienamente aderito sino al fanatismo militante, oggi ho le mie riserve perché è stata molto contaminata da un brutto concetto, secondo me: la resilienza.
La trovi ormai dappertutto ed è un concetto che dozzinalizza il dolore, è una specie di alibi, a mio avviso, della società: prova dolore perché tanto poi ti farà bene. Non lo so.
Ecco, riguardo il concetto espresso da Melanie Klein non so quanto possa essere effettivamente ricostruibile l’oggetto buono che è stato distrutto.

Riccardo Regi: Direttore di Vivo Umbria, Perugino, laureato in Lettere, giornalista professionista dal 1990, vice direttore dei Corrieri Umbria, Arezzo, Siena, Viterbo, Rieti per 18 anni.