Ho appena letto un libro formidabile su Truman Capote, un libro di interviste in cui a un certo punto Capote liquida Bob Dylan nella maniera in cui Capote liquidava chi non gli andava a genio, cioè pressoché chiunque, specialmente se si trattava di artisti, ricconi o uomini di potere in generale. Gli chiedono cosa ne pensi delle canzoni di Dylan, e lui risponde dicendo questo e quest’altro, e tra le cose negative che dice su Dylan ce ne sono due con le quali sono più o meno d’accordo, e che però secondo me, proprio perché si tratta di Dylan, non sono negative affatto. La risposta di Capote comincia così: “Non mi è mai piaciuto, mi è sempre sembrato un impostore”. E finisce così: “Non ho mai capito perché alla gente piace Bob Dylan. Non sa cantare”.
Dunque. Certo che Dylan è un impostore. Ma lo è per definizione, e in maniera deliberata. Forse non lo è stato deliberatamente da subito, perché all’inizio non deve aver fatto altro che imboccare le strade che gli sembravano più utili per farsi una reputazione, come tutti, ma da molto presto. In sessant’anni di carriera Bob Dylan ha cambiato identità almeno un milione di volte, scappando sempre un passo più in là ogni volta che il mondo pensava di avere capito chi fosse davvero. Se c’è un manifesto del Dylanismo, questo manifesto è l’impostura. It ain’t me baby. No?
Quanto alla faccenda del sapere o non saper cantare, naturalmente Dylan non è mai stato né ha mai avuto bisogno di essere Art Garfunkel o Tim Buckley. Ma per quello che canta Dylan, il modo in cui Dylan canta va benissimo. Peraltro quando si tratta di impegnarsi lui riesce a tirar fuori anche delle prove da cantante più che buone. Di solito non gli interessa, e non gli serve, ma tra le tante anime di Dylan ce n’è anche una da crooner, e non è niente male.
Venerdì Bob Dylan verrà a Perugia, la mia città, per aprire la cinquantesima edizione di Umbria Jazz. Che c’entra Dylan col jazz, direte voi. Beh, qualcosa c’entra, perché Dylan c’entra con qualsiasi cosa che sia americana. E di sicuro c’entra con la musica nera: prendetevi la briga di ascoltare la sua intera discografia e vedrete che i due terzi delle canzoni che ha scritto sono canzoni blues. Bob Dylan è l’America, è il grande narratore del secolo americano che sta sanguinosamente volgendo al termine, e sebbene Bob Dylan sia un impostore, anzi proprio per quello, andare a sentirlo cantare e suonare vale sempre la pena. Io non ci andrò, perché non posso andarci, e perché l’esperienza di andare a un concerto di Dylan l’ho già provata una ventina d’anni fa. Ventidue, per l’esattezza, ed esattamente nello stesso posto in cui Dylan suonerà venerdì, cioè lo stadio Santa Giuliana di Perugia, dove fino a metà anni Settanta giocava il Perugia e dove negli ultimi vent’anni hanno suonato a centinaia le star, non tutte scintillanti alla stessa maniera, di Umbria Jazz. Ho almeno un paio di ricordi vividi di quel concerto. Il primo riguarda l’ingresso allo stadio. Il concerto era il 25 luglio del 2001, pochi giorni dopo il G8 di Genova, l’assassinio di Carlo Giuliani e le porcherie alla Diaz e a Bolzaneto. Entrai con il mio biglietto in mano, insomma, e al carabiniere che mi chiese cosa avessi nello zaino di tela bianco e nero risposi “due molotov”. Avevo ventidue anni. Il secondo riguarda lo spettacolo vero e proprio. Dylan arrivò a Perugia preceduto dalla fama di uno a cui piaceva stravolgere puntualmente le proprie canzoni, per dimostrare al pubblico che se ne fregava della sua devozione o per capriccio o per qualche altra forma di vanità. Ero preparato, quindi, ma la fatica che feci per riconoscere i pezzi che stava eseguendo fu immensa. Nella mia memoria è sedimentata la convinzione che il primo che riuscii a decifrare sia stato Visions of Johanna, che già allora era tra i miei preferiti del suo repertorio, ma a riprendere in mano la scaletta, oggi, non posso crederci: era l’ottavo, e prima c’erano già stati Desolation Row, Tombstone Blues e Positively 4th Street. Possibile che non ce l’avessi fatta con nessuno di loro? Secondo me no. Tra l’altro ho sotto gli occhi quella scaletta, ed è veramente incredibile. Dopo Johanna vennero It Ain’t me Baby, Just Like a Woman, Rainy Day Women #12 & 35, Like a Rolling Stone, All Along the Watchtower, Knockin’ on Heaven’s Door, Highway 61 Rivisited, Blowin’ in the Wind. All’epoca conoscevo non tutto ma già molto di quello che aveva scritto Dylan, e di questo campionario pregiato, evidentemente, m’è rimasto impresso poco. Per me Dylan è il più grande, ma quel concerto, altrettanto evidentemente, non è stato memorabile.
Un’altra cosa che ho da dire su Dylan e su Perugia è una cosa già detta da altri tante volte, e che ridiranno tutti, e giustamente, anche stavolta, per cui non è il caso di soffermarmici troppo. La storia di Suze Rotolo, la fidanzata italoamericana del Dylan ventenne, la ragazza che è stretta a lui nella copertina ventosa di The Freewheelin’ Bob Dylan.
Suze e Bob stavano insieme, e a un certo punto Suze venne a studiare per qualche mese all’Università per Stranieri. La leggenda narra che dopo un po’ Bob partì per venirsela a riprendere, ma a quel che mi risulta si tratta appunto di una leggenda, perché nel libro che Suze Rotolo ha scritto sulla sua storia con Bob Dylan, e che io ho letto, non c’è niente di simile. Però che il giovane Dylan fosse arrivato a Perugia in un giorno d’estate del 1962 per riconquistare la sua ragazza era un’idea troppo romantica, in effetti, per rassegnarsi al fatto che fosse falsa. Per qualche tempo, quindi, ho accarezzato un’altra idea romantica, quella di scriverci un romanzo. Ho anche cominciato a lavorarci, e lavorandoci ho rimediato un paio di documenti della Stranieri che attestano l’iscrizione di Suze Rotolo e poco altro. In questo modo ho scoperto dove viveva Suze nei primi tempi a Perugia, e ogni volta che ci passo davanti, da allora, penso a lei e penso a Bob Dylan, al Dylan poco più che ragazzino e al Dylan invecchiato ben più di lei, perché Suze, che era di due anni più giovane, è morta il 24 febbraio del 2011, dopo una vita gratificante per ben altri motivi del suo popolare fidanzamento giovanile. Fu un’ottima pittrice, e nel 1972, dieci anni dopo la sua esperienza alla Stranieri, si sposò con un operaio della Perugina, un perugino di nome Enzo Bartoccioli. Il romanzo non lo scriverò, ma ovviamente anch’io mi domando cosa voglia dire, per Dylan, suonare a Perugia. C’è una canzone splendida di Dylan di cui De Gregori ha fatto una versione in italiano forse anche superiore. Si intitola If you See her Say Hello. È del 1975, mica l’avrà scritta per Suze Rotolo. Eppure parla di una donna che se ne va, e che adesso potrebbe essere in Marocco, o dappertutto. “She might think that I’ve forgotten her. Don’t tell’her it isn’t so”, dice la canzone. “Potrebbe pensare che l’abbia dimenticata. Tu non dirle che non è così”. Nel libro di Suze Rotolo ci sono molte pagine dedicate a Perugia. La racconta come una città vivace, piena di studenti provenienti da ogni parte del mondo, dove era possibile seguire eccellenti corsi d’arte all’Accademia e mangiare con pochi spiccioli. Dylan le mancava molto, e lui le scriveva lettere bellissime. A un certo punto Suze andò a stare in una pensione sotto l’Arco Etrusco, e gli mandò una cartolina. Bob rispose così: “Ricevuta la cartolina con l’arco su cui vivi – Dio, ricorda il balcone di Giulietta e Romeo – Non è però che ti chiamano e ti cantano come lì, vero?”.