Come è cambiata, nel corso degli ultimi decenni, l’autopercezione dell’individuo nel contesto globale? Quel processo di integrazione delle unità internazionali che, è noto, sotto “l’ampia” definizione di globalizzazione, ha scolpito in ognuno di noi un intendimento del mondo radicalmente differente da quello di un tempo. Se in precedenza si era soliti considerare come “propria” una dimensione più ristretta delimitata dai confini di un territorio ben definito, oggi, al contrario, viviamo in una realtà in cui quella sensazione di alterità, per certi aspetti, è venuta meno, edificando una forma mentis la quale, oramai, è parte di tutti noi.
I processi di integrazione planetari hanno virtualmente modificato i confini del mondo decretando, per quanto attiene al nostro continente, l’insorgere di una coscienza di “mondo europeo” frutto finanche di una sostanziale omogeneizzazione valoriale. Ne è conseguito che, sotto questo aspetto, la “dimensione continentale” del cittadino europeo, si è consolidata o, quantomeno, si sta consolidando. La generale visione di un mondo distante ed alternativo, solo perché al di fuori dei confini tradizionali, è relegata ormai a generazioni di un passato che, oggi, ci appare (o quantomeno dovrebbe) come lontano. Eppure una fervida pulsione di nostalgismo è sempre più viva in molti di noi che, per certi aspetti, percepiscono, e soffrono, una sorta di decadenza contemporanea; si pensi ad un esempio fuori contesto e cioè quello riguardante il mondo del cinema dove, le grandi case di produzione (per esigenze di incassi) prediligono una fase creativa che, in molti casi, ripropone vecchi franchise piuttosto che avventurarsi nell’oblio del nuovo, come se fosse in atto una sorta di logica da eterno ritorno. Ma è possibile o, quantomeno, auspicabile vivere un presente così improntato ad idolatrare un passato ideale? Sorge spontaneo pertanto chiedersi verso quale modernità si stia procedendo. Se è, per certi versi, acclarato come venga percepito il mondo d’oggi, dovrebbe essere altrettanto scontato che, in questa fase, sarebbe opportuno tessere la trama di una coscienza collettiva che, anche in seguito all’inaspettata pandemia di Coronavirus, ponga le basi per una riflessione volta a ripensare un andamento politico, economico, sociale e culturale che non convince quasi nessuno. Le conquiste civili che, dal secondo ‘900 fino ad oggi, hanno rappresentato, in modo fondante, l’istituzionalizzazione di valori inalienabili, vengono, oggi, affiancate da un impoverimento culturale, e motivazionale, che fa riporre, le speranze di una sfiduciata moltitudine, su di un ritorno conservatore, contraddistinto dalla riscoperta di valori e pretese che, si credeva, fossero, in un certo senso, oltrepassati. Senza addentrarsi nei particolarismi insiti ad un ragionamento così ampio, si riflette sulla già accennata “dimensione continentale” e cioè su quello spazio comune europeo che, oggi più che mai, fatica ad essere contemplato come proprio da parte dei suoi stessi componenti.
La percezione che si ha è quella di due strade mutuamente esclusive; quantomeno in prima istanza si è difatti posti o verso la via di un progresso multilaterale o verso quella di un conservatorismo unilaterale; in altri termini, due vie che, in “politichese” hanno l’abusata e generalizzante nomea di sovranismo ed europeismo. Ma cosa c’entra questo con i tempi? C’entra nella misura in cui si sta sempre di più affermando una tendenza maggioritaria che, sedotta ormai dalle certezze di un passato ideale, non vuole più indugiare sulla strada di un futuro, più che mai, incerto; la predominanza di un sentimento nostalgico, che si scontra con la volontà di costruzione di un “futuro nuovo”, dovrebbe far riflettere su come, negli ultimi decenni, ci si è impegnati nel realizzare un domani che, per certi aspetti, spaventa. Il ripensare quindi se stessi “chiusi” all’interno del proprio mondo pare, per molti, l’unica via perseguibile da opporre all’odierno decadentismo e alle imminenti sfide; sebbene non sia affatto semplice esaminare quanto, oggi, siano percepite come tradite quelle aspettative di un futuro più roseo per cui, un tempo, si posero le fondamenta, è bene ragionare su quanto la storia ci ha tramandato e cioè su come, di solito, la via del singolo non è da preferire a quella del collettivo, così come non è pensabile riporre le speranze su di concetti e presupposti afferenti ad epoche e situazioni storicizzate. Un punto di partenza potrebbe pertanto essere quello di trovare un equilibrio che, come cantava Pierangelo Bertoli, mantenendo “un piede nel passato e lo sguardo dritto e aperto nel futuro”, aiuterebbe, forse, nel pensare un mondo nuovo, scevro da regressive pulsioni restauratrici.