I racconti brevi di Carlo Favetti: “Orfeo”

Terzo racconto di Carlo Favetti in questa estate torrida per allietare chi sta sotto l’ombrellone o al fresco della montagna ma anche per chi, magari dopo una giornata di lavoro, se ne sta in poltrona col ventilatore acceso.

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Orfeo

 di Carlo Favetti

 

Andai quel pomeriggio dei primi di agosto a piazza della Repubblica  per gustarmi i concertini che si tenevano sotto il portico alle 18 ora dell’ aperitivo. Il fresco serale non era sufficiente per placare l’ afa che colpiva da giorni la capitale. C’ erano molti ragazzi li attorno  e tutti a dorso nudo si schizzavano addosso l’ acqua della fontana delle Naiadi. Sotto i portici erano esposti i vari cartelloni dove riportavano gli spettacoli in programma per l’ estate romana. Concerti eventi, presentazione di libri, convegni, mostre d’ arte: pittura, scultura, fotografia e teatro. Guardai attentamente la locandina tra gli spettacoli di teatro classico che si teneva proprio quella sera, vidi che al fossato di Castel Sant’ Angelo c’ era l’ ultima replica delle Baccanti di Euripide. Leggo tra i nomi dei tanti protagonisti anche quello di Claudio; lo spettacolo era programmato per le ore 21,30 ma, purtroppo era tardino, perché avevo il rientro per le 23,30, già molte volte avevo approfittato e non me lo potevano più permettere. Mi sarebbe piaciuto vedere quella rappresentazione di Euripide, ma soprattutto rivedere Claudio il quale interpretava Orfeo. Quella era una delle migliori opere di Euripide. In sintesi,  le Baccanti erano le seguaci di Dionisio nel suo culto orgiastico, indossavano pelli feline con il tirso in pugno danzando sempre più sfrenatamente per i monti in stato di ebbrezza e accompagnandosi con il fragore di cimbali, timpani, flauti e altri strumenti. Orfeo, dopo la morte di Euridice non vuole più compagnie femminili e le Baccanti offese, lo uccidono. Così Orfeo può scendere negli inferi e riunirsi alla sua amata Euridice. Una delle storie più belle della mitologia greca che studiai anche a scuola e quella sera veniva rappresentata. Come fare? Tentai di chiedere telefonicamente un po’ di elasticità sull’ orario del rientro, dall’ altra parte del telefono ebbi solo un consiglio di non tirare tanto la corda con questi ritardi, e fortunatamente, anche per questa fui graziato. Restava solo di andare alla ricerca di Orfeo e mi diressi a Castello, ma gli ingressi erano tutti chiusi, sigillati, l’ apertura sarebbe avvenuta mezz’ora prima dell’ inizio. Proprio all’ ingresso della biglietteria, Claudio era lì con tutto il suo armentario del costume dentro il sacco e da una mano reggeva le cartelline del copione. Riesco a raggiungerlo ma in mezzo a tutta quella confusione di persone, in fila lui riesce solo a farmi un saluto con la testa e dirmi che ci saremo visti  al termine dello spettacolo. Me la sono gustata tutta la rappresentazione teatrale della tragedia di Euripide, i costumi, la bravura degli attori protagonisti ma soprattutto lui Orfeo interpretato dal mio amico Claudio. Era la terza volta che partecipavo alle sue esibizioni in pubblico, quel ragazzo che conobbi così fortuitamente a quel compleanno al Pub della nipote del mio collega Paolo. Da allora la nostra amicizia si è fatta sempre più consistente fino a diventare un rapporto sincero e stretto. Non riuscivo a capacitarmi come mai i nostri incontri avvenivano sempre in occasione di eventi culturali, e mi domandavo se fosse stato destino oppure un caso. Tuttavia ero lì anche quella volta e ciò mi riempiva l’ animo di gioia. Conoscevo la trama della tragedia che si andava a rappresentare e conoscevo soprattutto la bravura dell’ attore principale, che sotto vari aspetti ero riuscito a trascinarlo nella mia intrigata esistenza.  E si perché anche lui era un ragazzo che si affacciava agli albori della vita, le sue conoscenze culturali avevano fatto di lui un grande, sotto vari aspetti e in me poi fu un modo di verifica del mio essere. Lui in scena con la lira in mano, vestito da greco, l’ Orfeo che faceva palpitare il cuore e poi sentire quelle emozioni nelle viscere forti e laceranti come i morsi delle Baccanti sul quel povero corpo indifeso e senza più respiro. Questo provai nella vista di quell’ Orfeo che saliva dal proscenio fino al centro della scena per muoversi sulla ribalta con passo lento e felpato come un leopardo. Ad ogni battuta lui  mi cercava tra il pubblico, riuscivo sempre a nascondermi senza farmi scoprire, sembrava allora che quella ricerca di sguardi gli dava  più forza e slancio nel recitare. Era bellissimo, dai suoi occhi irradiava luce, confondendosi sul fondo naturale dei muri di Castel Sant’ Angelo. La fioca luce delle fiaccole, faceva da contorno a quel corpo tanto bello, e l’ arpa dalle corde dorate sembrava ridare vita alla scena tremenda  che si apprestava a terminare sprofondando negli inferi; e furono così le Baccanti che iniziarono il dialogo finale:” ecco quel che l’ amor nostro disprezza! O, o sorelle! O, o diamogli morte! Tu scaglia il Tirso, e tu quel ramo spezza; tu piglia o saxo fuco e gitta forte; tu corri a quella pianta la’ scavezza O, o facciamo che pena el tristo forte! O, o facciamo che pena el tristo porte! O, o caviangli il cor dal pecto fora! Mora lo scellerato, Mora! Mora!”.

Orfeo dopo questo acclamare delle Baccanti fu lui allora declamare il sermone:
“Qual sarà mai sì miserabil canto
che pareggi il dolor del mie gran danno?
O come potrò mai lacrimar tanto
ch’i’ sempre pianga el mio mortale affanno?
Starommi mesto e sconsolato in pianto
per fin ch’e’ cieli in vita mi terranno:
e poi che sì crudele è mia fortuna,
già mai non voglio amar più donna alcuna.

Da qui innanzi vo’ côr e fior novelli,
la primavera del sesso migliore,
quando son tutti leggiadretti e snelli:
quest’è più dolce e più soave amore.
Non sie chi mai di donna mi favelli,
po’ che mort’è colei ch’ebbe ‘l mio core;
chi vuol commerzio aver co’ mie’ sermoni
di feminile amor non mi ragioni.

Quant’è misero l’huom che cangia voglia
per donna o mai per lei s’allegra o dole,
o qual per lei di libertà si spoglia
o crede a suo’ sembianti, a suo parole!
Ché sempre è più leggier ch’al vento foglia
e mille volte el dì vuole e disvole;
segue chi fugge, a chi la vuol s’asconde,
e vanne e vien come alla riva l’onde.

Fanne di questo Giove intera fede,
che dal dolce amoroso nodo avinto
si gode in cielo il suo bel Ganimede;
e Febo in terra si godea Iacinto;
a questo santo amore Ercole cede
che vinse il mondo e dal bello Ila è vinto:
conforto e’ maritati a far divorzio,
e ciascun fugga el feminil consorzio”. 

Scrosci di applausi al giovane Orfeo che dalla emozione lascio’ cadere a terra la dorata lira che teneva a sé al fianco. Ci mise un bel po’ prima di uscire dal camion adibito per camerini del trucco e ricambio abito:” sei un genio – gli dico io – veramente un grande attore,  farai carriera, e sono sicuro che ti vedrò in televisione o al cinema. Dirò a tutti che ti ho conosciuto dal vero”. Claudio mi abbraccia si mette a ridere e mi dà un bacio sulla guancia che stampa le impronte delle labbra macchiate ancora di rossetto vermiglio. Aveva parcheggiato la macchina proprio all’ inizio di via della Conciliazione: “Non posso fare tardi – gli dico io – devo rientrare in sede tra un po’ dove pensi di andare”. Mi guarda, mi sorride, poi imbocca porta Pinciana e giù verso la Salaria. Riesco a vedere un tratto del muraglione e il recinto della rete che circonda e delimita Villa Ada. In silenzio  scendiamo, passiamo come due clandestini dentro il buco della rete e via nel parco fino a raggiungere il tempio di flora: un complesso neoclassico della villa che sorge di fronte al Casino Pallavicini, sulla strada tra Salaria e via Panama. Edificato tra la fine del settecento e i primi del ottocento qui i reali portavano gli ospiti a prendere il caffè o degustare cioccolato. Si stava facendo tardi, era passata da tempo la mezzanotte, non potevo prolungare oltre il mio rientro in sede anche se era lì poco distante:”dai vieni qui sotto al colonnato – mi prende per mano Claudio – guarda che meraviglia, sembra di stare in un vero tempio greco, qui i nostri reali portavano i loro amici e degustavano cioccolato  – apre lo zainetto e tira fuori due maxi  carrarmati prodotti dalla Perugina, uno al latte e l’ altro fondente   mi dice tutto misterioso e a fil di voce – quali scegli dei due?”.
Andavo matto per quel tipo di cioccolato, al paese lo compravo al bar di Bianchina. Ci mettemmo seduti come due bambini, uno di fronte all’altro,  sul bordo della fontanella. Senza attendere la mia risposta, libero’ dalla carta dorata i due carrarmati e alternando un pezzetto dell’ uno e dell’altro me li metteva in bocca, troppo svelto però da non farcela a masticare e ingoiare. Sento ancora l’ odore  di queI cioccolato, meta’ bianco e meta’ marrone che fuoriusciva dalla bocca e lui con il dito indice raccoglieva quello sulle labbra e se lo passava alla sua di bocca finché non finì tutto da esserne ambedue sazi.
Redazione Vivo Umbria: