PERUGIA – In questi casi, come si dice, il piacere è dell’intervistatore. L’onere, se l’intervistata è Monica Guerritore, consiste nel riportare nella loro essenza e intensità parole, pause, concetti, sentimenti, visioni, allusioni.
In particolare quando, come in questo caso, di mezzo c’è pure Federico Fellini.
“Ginger e Fred” da mercoledì e fino a venerdì al Morlacchi di Perugia a poco più di un mese dal debutto al Quirino di Roma. L’occasione giusta per parlare, come siamo soliti dire e come nostra consuetudine, di questo e altro con la Guerritore.
– Ginger e Fred di Fellini è stato più un colpo di fulmine o una sua progressiva meditazione su che cosa voleva rappresentare?
L’uno e l’altro. C’è stato un primo colpo di fulmine nel senso che dopo ‘L’anima buona di Suezan’ ho capito la forza che ha il teatro politico che parla di qualcosa in cui è immerso il contesto attuale. Lì c’era il senso del perché si diventa cattivi come nella Germania del ’39: la povertà, la fame, un piatto di riso da difendere fino a farmi venire i denti di ferro. Perché ho fame e non c’è un giudice a Berlino che possa dire questo piatto si divide. E l’anima buona diventa cattiva per difendere quel poco che ha. Questa forza l’ho incontrata in Fellini e ho cominciato a lavorare sia sulle tracce di Strehler e di quello che metteva in scena, sia sulle caricature felliniane che raccontano il personaggio. Pensando a Bertolt Brecht. Inoltre ho letto la biografia di Gianfranco Angelucci “Segreti e bugie di Federico Fellini. Il racconto dal vivo del più grande artista del ‘900 misteri, illusioni e verità inconfessabili” e mi sono innamorata del come è nata l’idea di Ginger e Fred.
– In che senso?
Era chiara la consapevolezza di Fellini del contesto che stava cambiando con l’avvento delle tv private, degli spot, dei personaggi feriti per aumentare l’ascolto. Parte da qui la riflessione che ho fatto sulla scia premonitrice di Federico che ha parlato di qualcosa in cui noi oggi siamo totalmente immersi. Con l’aggiunta della contrazione del tempo di attenzione che va da un massimo di un minuto e mezzo, all’input degli algoritmi social che lo limitano a 15 secondi. Da qui la nascita della mia sceneggiatura che ho costantemente confrontato con Angelucci e con Filippo Ascione, l’assistente di Fellini.
-Nasce da qui una sorta di doppia trama: poesia e denuncia?
Sì, e su tutto il “disegno” di Ginger e Fred: due figure che sono come fantasmi che vengono da un mondo “altro” e che sono già scomparsi. Veniamo dal buio e nel buio ce ne andiamo, non esistiamo più in questo mondo qua, colorato e rumoroso.
– Il pubblico come se ne accorge?
Vede distintamente in scena la differenza, la diversità di quello che portano loro due nel talk show, anche visivamente: un frac, un vestito di seta e, intorno, invece, il mondo a loro estraneo. Tutto esalta la trama sentimentale che tra loro non si è mai interrotta nel tempo e che viene interrotta lì. Perché Federico vuole così: che lei se ne vada e lui dica, non ti accompagno.
– Ginger, pare di capire, è un personaggio che lei ama profondamente. Vero?
Ringrazio Fellini di aver regalato a me un personaggio femminile che non ho mai “letto”. Così delicato, che porta questa trama fatta di nulla, che balla in scena, che il pubblico segue con lo sguardo e con l’anima.
– C’è una battuta particolarmente significativa che le piace aver scritto e interpretare?
Una battuta così esplicita di fatto non c’è proprio perché regna l’aspettativa di qualcosa che non si compie. Lei a un certo punto dice a lui: Ma siamo troppo vecchi per diventare giovani anche solo per un po’ Per riannodare quel filo, quell’aspettativa, per l’appunto. E lui risponde attraverso il ricordo delle loro tournée: quindi, ballano. Come a dire: siamo ancora quelli? Sì. E poi c’è la rivelazione: la scoperta di ciò che ha passato lui, che è finito per quella aspettativa delusa, in ospedale, nel reparto di psichiatria. Nessuno si aspetta questo dolore nascosto. La cosa bella è che Fellini scrive proprio: non voglio scene madri, non voglio spiegare. Tenere tutto leggero, lieve, per poi aprire d’improvviso queste voragini.
-L’inizio dello spettacolo al buio come si spiega?
Aderente, questo sì, a una frase che è un concetto: Siamo fantasmi che vengono dal buio e nel buio se ne vanno, siamo già morti. Il pubblico pensa: “ma quanto è buio, perché questa penombra?”. Il senso è questo, anche se poi ho dovuto accettare un compromesso… è un po’ le luci le ho dovute alzare.
– A proposito: nelle note di regia lei afferma che il mondo di Fellini è un’illusione: la scena non descrive ma allude. Come ha reso ciò?
L’ho studiato nel teatro di Brecht, l’arte dei visionari deve essere maneggiata dai realisti.
– Un esempio nella pièce?
Arriva in scena un personaggio magico, con un cilindro iin testa ,e sarà quello che dirà a lei “guarda che lui è stato in un ospedale psichiatrico”. Il deus ex machina. Quello che arriva nella storia e te la fa sterzare. Tre fasi, dunque: l’ingresso nel buio, il sogno, la luce piena che svela personaggi e contesto sociale tra una pubblicità e l’altra. Poi c’è lo show, finalmente. Fino alla definizione del sé con la battuta: io sono Amelia Bonetti, in arte Ginger. E si sente rispondere: “Lo dimostri”. E lei tira fuori le locandine…
– La scelta di Massimiliano Vado nei panni di Fred?
Era Pietro Bontempo che doveva interpretare Fred, ma incautamente è salito su un albero … e si è fatto molto male. Massimiliano Vado, a quel punto, perché pur non somigliando a Mastroianni, più di Bontempo ha le caratteristiche per cui Fellini sceglieva Marcello che sono la lievità, la bellezza un po’ retrò di un ragazzo garbatamente piacione, esuberante e superficiale, che si faceva scorrere addosso le cose e che, come Mastroianni, nella sua leggerezza, sembra che nemmeno reciti.
– Nella nella vita vissuta gli amori che nascono in un ambito come quello dello spettacolo hanno aspetti che morbosamente la gente vuole conoscere. C’è un’istruzione per l’uso per mantenere l’intimità?
Questo non lo so. Per esempio quando è nata la mia storia d’amore con Gabriele Lavia stavamo facendo I masnadieri e i social non c’erano. C’erano i giornali e i giornalisti. Quindi bisognava stare attenti perché io no, ma lui, era sposato. La stessa cosa con Roberto (Zaccaria ndr.).
Abbiamo tenuto in qualche modo la relazione coperta, non se ne parlava.
Ora i protagonisti mettono tutto sui social.
– In tv troviamo personaggi che ritornano…
Non si può collegare questo allo spettacolo. Fellini fa riferimento all’eleganza di Gershwin e degli Anni 40. Quelli che ora spesso si portano in scena sono cantanti mascherati, ciarpame, caricature di se stessi. Ginger e Fred “sono” loro stessi: ballano bene fino a che lui inciampa e cade perché è fragile.
– In pieno dramma Covid si è battuta per il riconoscimento dei diritti di coloro che lavorano per la cultura e in favore della creazione di una Rete nazionale dei teatri capace di accogliere e promuovere gli spettacoli delle Compagnie private. A che punto siamo?
I comuni italiani sono ottomila. Il teatro italiano si fonda sul cosiddetto “teatro di giro” ma deve sopravvivere, visti i costi. E’ un cane che si morde la coda: ci dovete dare i teatri se volete il teatro.
Dovete dotarvi di un’agenzia che distribuisca come una volta le Compagnie nel territorio individuando aree capo zona, come Milano e Roma, da cui si dirama un circuito che porta le Compagnie fin nei teatri più piccoli. Avevamo approntato il progetto ma in concreto al momento siamo rimasti ai teatri stabili che ci sono dall’epoca di Strehler. Questo, ben inteso, è importante, ma siamo rimasti lì. Eppure è il teatro privato che tiene in piedi il circuito e le professionalità di chi ci lavorano.
– Il problema?
Trovare interlocutori, non solo istituzioni e politici, ma anche imprenditoriali.
– Morlacchi: è davvero così difficile il suo pubblico?
Il silenzio attento è diverso dal silenzio del disinteresse che accende i telefonini. Il Morlacchi sa quello che vuole. Io mi ci trovo bene.
– Il suo film sulla Magnani?
Le riprese inizieranno tra settembre e ottobre.
– Nient’altro?
Se si riferisce al cast nient’altro.
Già. Nient’altro. Il potere di chi sa parlare forte e chiaro. Agli altri certamente. E, pare di capire, a se stessa.