PERUGIA – Il regime fascista non presupponeva opposizioni al pensiero unico, non contemplava visioni diverse dalla propria e proprio per questo motivo anche il cinema doveva rispecchiarsi nell’aura patinata e fasulla della borghesia agiata delle amenità del cosiddetto “cinema dei telefoni bianchi”. Ed è per questo motivo che la nuova e prolifica stagione del Neorealismo reagì con un cinema che delineò il profilo di un’Italia umiliata e depressa, anche se alla soglia di una ricostruzione che arriverà da lì a poco, a partire dalla metà degli anni Cinquanta. La narrazione di una realtà – da cui il termine neorealismo – proiettata tutta verso l’esterno e impegnata nella individuazione delle problematiche sociali e collettive soprattutto delle classi subalterne. Un cinema povero, soprattutto per mancanza di mezzi che spesso è ricorso ad attori non professionisti, ma ricco di nuove idee come quelle di un montaggio rivoluzionario che, almeno in parte, si rifaceva alla scuola cinematografica sovietica che per prima rivisitò i crismi semantici e semiologici dell’arte del montaggio. Chi invece rifuggì, reinventando una poetica e riferimenti culturali sino ad allora quasi del tutto ignorati, fu Federico Fellini che rivolse lo sguardo piuttosto che verso l’esterno, verso l’interno, verso se stesso e il proprio relazionarsi al mondo e alla realtà. Una realtà che da dentro appare popolata da quel fastoso onirismo che mette in relazione l’inconscio e l’individuo. Una prospettiva nuova che indicherà anche una via mai percorsa nella storia del cinema, in seguito seguita da altri registi. Nell’anno del centenario della nascita del regista riminese, pare opportuno ricollocare la sua arte e il suo approccio al cinema secondo quell’intima relazione con il mondo dei sogni nell’interpretazione soprattutto junghiana che per stessa ammissione di Fellini, fu una fonte di ispirazione per il suo immaginario. E’ nota infatti la relazione di Fellini con Ernst Bernhard, il grande psicanalista junghiano ed esoterista che il regista incontrava, verso sera, nel suo studio di via Gregoriana a Roma. “L’ora in cui lo andavo a trovare più volentieri – scrive Fellini – era quella del tramonto, quindi c’era un sole che a un certo momento rendeva tutto dorato il pulviscolo della stanza. C’erano grandi finestre e l’occhio si perdeva su un panorama sterminato di Roma, mentre giungevano i rintocchi di tutti i campanili. Sembrava di essere in una mongolfiera sospesa nell’aria”. Costante nella poetica felliniana è il riferimento al mare come simbolo dell’inconscio collettivo junghiano o come l’Es freudiano, il mondo sommerso del nostro inconscio da cui emergono grande parte dei mostri marini dell’immaginario del regista, o alla Grande Madre, simbolo del femminile nelle sue molteplici accezioni sessuali e non: dalla moglie, alle donne giunoniche che popolavano i suoi sogni, prostitute di una libido bonaria e rassicurante che, però, andavano tutte dominate dalla frusta per ricollocare il maschile in posizione dominante. Ma è soprattutto nella maturità e all’apparire della crisi dei 50 anni che il regista riminese si prostra in una crisi creativa: animus e anima in conflitto, diventano archetipi che infine si alternano in una sintesi dove alla crisi del primo, corrisponde una emersione dell’altra e un film come Otto e mezzo si fa sublimazione della crisi superata, mettendo in gioco se stesso e infine per narrare la storia di un regista che non sapeva che film fare e che invece si trova a fare i conti con le sue pulsioni inconsce, dapprima irrisolte e quindi elaborate. Per anni l’onirismo di Fellini fu indicato dalla critica marxista come esempio di solipsismo e soggettivismo, ma anche la realtà onirica felliniana, pur usando categorie diverse, corrisponde ad aspetti sociali che si riferiscono ad un individuo disorientato e immerso in un caos dove l’anarchia degli strumentisti di Prova d’orchestra si manifesta in un soliloquio collettivo senza alcuna possibilità di una qualsiasi forma di comunicazione, dando per inumani e autoritari e quindi rifiutati gli ordini del direttore d’orchestra. Tra Fellini e Jung si instaura dunque una relazione intima mediata da Ernst Bernhard. Scriverà il regista riminese: “I pensieri di Jung, le sue idee, non pretendono di diventare dottrina, ma solo di suggerire un nuovo punto di vista, un diverso atteggiamento che potrà arricchire ed evolvere la personalità, guidandoti verso un comportamento più consapevole, più aperto, e riconciliandoti con le parti rimosse, frustrate, mortificate, malate di te stesso. Indubbiamente Jung è più congeniale, più amico, più nutriente per chi crede di dover realizzarsi nella dimensione di una fantasia creativa”. L’incedere per associazioni mentali che usa Fellini, frutto di un intenso lavoro di immaginazione attiva che adopererà anche nell’attività di fumettista, fumetti che con frequenza diventeranno anche storyboard per i suoi film, sta ad indicare che il cinema ha una nuova possibilità mitopoietica, quella del sogno.
- Claudio Bianconi in Arte e CulturaCinema