PERUGIA – Tra musica e dolore esiste una stretta relazione. Connessione che nella storia della musica e, in particolare del jazz, si sostanzia in una catarsi pitagorica passando attraverso il processo dell’astrazione. La musica è di per sé elemento volatile e dinamico, mai fermo su se stesso, cangiante e soprattutto astratto per eccellenza. Vale a dire ha il potere di separare dalla totalità estranea un contenuto relativo al pensiero. Si sono scritti fiumi di parole sul “senso” della musica, ma tutte le esegesi sul mondo della musica hanno forse colto solo verità parziali. Perché essa è una costellazione dell’arte più lontana dalle altre, forse più alta e distante dalle cose terrene. Chi l’ha abbracciata nella sua ampiezza e allo stesso tempo nella sua tirannia che non lascia spazio ad altro, è stato di certo Ezio Bosso che della catarsi della musica era maestro assoluto. Una catarsi che lo rendeva gioioso, sorridente, affabile soltanto per il fatto di poter “frequentare” e di possedere le chiavi per comporre ed eseguire la musica. Un demiurgo che ne ha sviscerato semplicemente la totalità degli aspetti, compresi quelli sociali. Di Ezio Bosso – è qui incalza il riferimento al jazz, che dal dolore ha ereditato la tensione e il relax della blue note che si riallaccia direttamente alla sofferenza degli schiavi d’Africa deportati in America, ricordiamo anche e soprattutto il suo essere “animale sociale”, uomo che, rapito dalle proprietà catartiche della musica, non perdeva occasione di comunicare agli altri questa sua convinzione, alimentata da una smisurata passione. La bellezza – meglio la musica – salverà il mondo, sosteneva Dostoevskij. Grazie alle sue proprietà terapeutiche in un mondo malato e sofferente da egotismi, guerre, soprusi, ingiustizie. E’ questa la condizione che Ezio Bosso condivideva con l’ “altro da sé”, così come la musica e il canto condiviso degli schiavi d’America, ma anche le nostre mondine nella risaie del vercellese, alleviava la fatica e le sofferenze di un mondo ingiusto. Della gioia e dell’empatico sorriso di Ezio Bosso, gli umbri sono stati diretti testimoni in varie occasioni, compresa quella che ricordo meglio nel 2016 ad Umbria Jazz che lo aveva invitato per un concerto al teatro Morlacchi svolto domenica 10 luglio di quattro anni fa, proprio perché nessuno meglio di lui esprimeva l’idea della condizione della musica nel viverla, nell’ascoltarla, nel comprenderla e nella proprietà di creare una empatia tra musica e pubblico, tutte qualità intrinseche al jazz. In quelle dodici stanze “The 12th Room”, il suo concept album d’esordio del 2015 (tra l’altro prodotto dall’etichetta perugina Egea), Bosso fece entrare il pubblico del teatro in un dialogo musicale tra il suono dell’ ‘amico’ Pianoforte Gran coda Steinway e i presenti, stregati e ammutoliti dalla “ristrettezza” di quelle stanze, troppo piccole per contenere tutta la sua arte e troppo grandi per essere “percorse e infine riuscire a uscirne”. Sono queste le parole che il pianista e direttore d’orchestra usò per presentare il suo concerto al Morlacchi basato sulle musiche del suo album. Quell’ultima stanza, la dodicesima, gli è stata fatale, forse a rappresentare l’evento ineludibile a cui andava incontro: un evento troppo grande per riuscire ad uscirne.
Ezio Bosso è morto, aveva 48 anni. E’ stato pianista, compositore e direttore d’orchestra. Ha studiato Composizione e Direzione d’Orchestra all’Accademia di Vienna sino a dirigere alcune delle più importanti orchestre internazionali come la London Symphony Orchestra, The London Strings, l’Orchestra del Teatro Regio di Torino e l’Orchestra dell’Accademia della Scala. Ha composto musica classica, colonne sonore per il cinema (per “Io non ho paura” di Salvatores, per “Rosso come il cielo” di Bortone), per il teatro (per registi come James Thierrèe) e la danza (per coreografi come Rafael Bonchela) fino a scrivere sperimentazioni con i ritmi contemporanei.
Dal 2011 Ezio Bosso conviveva con una malattia neurodegenerativa progressiva.