SPOLETO – Il Festival sarebbe potuto anche finire ieri sera al termine di un’emozione incapace di andarsene. Quasi stordente per l’infinità delle eco così forti da confondere la lucida e ficcante trama della Storia, quella di Tucidide, che Alessandro Baricco in questa sua sontuosa rilettura della Guerra del Peloponneso ripropone attualizzandola con cura, sapiente scrittura, avvincente narrazione. Toccando i sensi. Tutti.
Occhi e vista. Il palco di piazza del Duomo accende le luci su 100 violoncelli rovesciati con la voluta del manico in basso e il puntale in alto: lame di lancia verso il cielo. L’archetto di Giovanni Sollima evoca sonorità antiche, da liturgia pagana.
Fari caldi illuminano potentemente le colonne di ispirazione corinzia del portico del Duomo. Sei là, dove comincia la Storia. La voce di Gabriele Vacis inizia la narrazione e il leggio sembra quasi un pulpito adatto alla sacralità di vicende umane che con il passare del tempo teatrale diventano cronaca maledettamente vicina, contemporanea.
Vedi Melo, isola mitica fiaccata dalla guerra infinita fra Atene e Sparta che durerà 27 anni, vogliosa di pace, di neutralità. Stefania Rocca, credibilissima voce di popolo, argomenta la rivolta all’ambasciatrice di Atene, una Valeria Solarino che si vorrebbe più sprezzante e imperiosa fin dall’inizio delle sue battute, lo diventerà con il trascorrere della recitazione, quando sentenzierà che Atene non può accettare che un alleato si dilegui. I costumi azzurri con stellette di Giovanna Buzzi, vestono le farneticazioni di editti bellici che suonano attuali. Sarà guerra, sarà punizione, sarà persino vendetta. Un’alleanza nella geo politica seguiva allora, come ora la Nato e quel che resta del Blocco Orientale, logiche brutali, prepotenti, se necessario.
Naso e olfatto. Prende odore, visto che la diplomazia lascia il posto alle armi, il fumo scenico che si innalza dietro il palco mentre la musica si fa battaglia con voci e grida che si uniscono al battito dei piedi dei musicisti che sembrano calzare anfibi tanto sono energicamente sonori, e si intersecano con le note corali del lamento e con la partitura solista e struggente del maestro Sollima che con il suo violoncello scende nel campo di battaglia. Fisicamente. L’assedio di Melo odora di morte.
Bocca e gusto. Il fetore acre di ferite mortali viene portato in platea dalla potente gestualità di Enrico Melozzi che non può dirigere la sua orchestra, i 100 Cellos, con la convenzionale bacchetta ma si arma delle sue braccia che sembrano remare disperatamente, senza sosta, senza tregua. Trascinano gemiti, lacrime che pare scendano fino a sentirle sulle labbra.
Pelle e tatto. Al resoconto penoso della Guerra del Peloponneso al quale Vacis sembra porre magistralmente la parole fine, si aggiunge un altro episodio. Un brivido della Storia che risale a dieci anni prima rispetto alla rivolta di Melo, sempre in quell’infinito teatro di guerra del Peloponneso. Con Mitilene stavolta, città dell’Isola di Lesbo, che dice no ad Atene. Che, anche stavolta e una volta in più, usa le armi per persuadere. Cattura i “gerarchi” rivoltosi e li porta fin dentro al Partenone dove tocca decidere all’assemblea, democraticamente, che fare di Mitilene e di chi la abita. Il verdetto è senza appello: morte per gli uomini in età di battaglia, schiavitù per donne e bambini.
La nave salpa verso Lesbo per eseguire il verdetto. Al calar della notte quando il silenzio lascia spazio alla riflessione, l’inumana sentenza prende la forma del rimorso. Così, il sorgere del sole, porta nuova luce al Partenone. Le coscienze si illuminano di pietà. E un’altra nave parte per fermare la strage. Il pubblico sente sulla pelle il peso della sentenza e il brivido della paura che possa essere eseguita; proprio ora, adesso che l’Uomo è tornato sui suoi passi, che il coraggio stavolta l’ha messo per mettersi in discussione, per correggere se stesso. Con le dita delle tue mani vorresti fermare lo scafo della prima nave. Dietro il palcoscenico, il portico, si illumina di azzurro: le luci, direzionate da Fabiana Piccioli, ondeggiano al ritmo della musica e i 100 Cellos diventano mare. Ci navighi dentro. Con una speranza che vale oggi come ieri in quell’Egeo insanguinato; oggi nell’Ucraina e nelle guerre che ci stanno un po’ più là, dimenticate. Domani, chissà.
Orecchie e udito. Novanta minuti di silenzio del pubblico hanno accompagnato “Tucidide. Atene contro Melo” in questa sua prima assoluta della produzione “Holden Studios, Spoleto Festival dei Due Mondi”. Piazza Duomo immersa nel rito. La sacralità di una musica intima e carnale, le parole liturgiche di una Storia che si ripete, terminano. Le luci pare possano accendersi sul futuro. Uno strano cameratismo pervade e commuove tutti in un fragoroso applauso che non vuole smettere. E libera tutti i sensi.
Il Festival poteva anche finire qui. La forza, sfrontata, dell’emozione mi spinge a dirlo anche a Monique Veaute, incrociata per caso. Con un sorriso, comprende; ma fa capire che non sarà così. E, placati i sensi, è una grade consolazione sapere che il Due Mondi continuerà.