PERUGIA – Quando si parla di donne e lavoro la retorica è sempre dietro l’angolo.
Si rischia di snocciolare numeri e statistiche e dare una lettura fredda per quanto corretta ma nello stesso tempo anche di cadere nel luogo comune. Purtroppo però, alcuni concetti sono scontati ma in realtà solo all’apparenza: parità di genere, divisione dei compiti e ripartizione delle responsabilità sono infatti degli obiettivi non ancora raggiunti.
Così, mentre nel settore lavorativo la pandemia inizia a presentare i suoi conti salati risultano essere state proprio le donne a pagare il prezzo più alto.
L’agenzia Mediacom043, che ha stilato un quadro della situazione del mercato del lavoro in Italia nei primi 9 mesi del 2020 confrontati con gli stessi del 2019, registra un calo di lavoro generalizzato in tutto il paese e una percentuale di calo dell’occupazione femminile che è il doppio di quella maschile: sparite 273mila occupate, cioè il -2,8%, contro i 192mila occupati uomini, -1,4%.
Secondo il penultimo rapporto Istat sul lavoro invece, su 101mila occupati in meno nel mese di dicembre, ben 99mila sono donne. Sempre secondo l’Istat, nell’ultimo comunicato stampo diffuso ad aprile 2021 “La diminuzione dell’occupazione (-0,4% rispetto a novembre, pari a -101mila unità) coinvolge le le donne, i lavoratori sia dipendenti sia autonomi e caratterizza tutte le classi d’età, con l’unica eccezione degli ultracinquantenni che mostrano una crescita; sostanzialmente stabile la componente maschile. Nel complesso il tasso di occupazione scende al 58,0% (-0,2 punti percentuali)”.
Lo smart working ha aiutato sì, ma anche messo in evidenza e acuito disparità già esistenti: da un lato ha permesso a molte di non perdere il proprio posto di lavoro, dall’altro si è trasformato in un’arma a doppio taglio soprattutto per le donne. Il tanto agognato lavoro da casa si è infatti trasformato per una donna su tre in un tunnel lavorativo senza fine, dove tra riunioni aziendali, figli e lavatrici la giornata scorre senza soluzione di continuità fino a sera, dimostrando che cura di casa e famiglia siano di fatto, ancora compito prevalentemente femminile. Il cosiddetto glass ceiling, soffitto di cristallo, metafora che si usa per indicare una situazione in cui l’avanzamento di carriera di una persona viene impedito a causa di discriminazioni sociali o razziali, è ancora molto presente sebbene mascherato.
Una ricerca realizzata della Fondazione studi dei consulenti del lavoro indica che “le occupate hanno sofferto l’allungamento dei tempi di lavoro (il 57% contro il 50,5% degli uomini) e l’inadeguatezza degli spazi casalinghi (42,1% contro 37,9%), evidenziando un maggior rischio di disaffezione verso le proprie mansioni (44,3% rispetto al 37% dei colleghi)”.
Ma al di là dei numeri, quali sono le percezioni che le donne hanno del loro lavoro?
Quali i sogni, le speranze, i problemi più grandi?
Senza nessuna pretesa di essere esaustivi abbiamo chiesto a quattro donne, mamme, lavoratrici autonome e studentesse residenti in Umbria come hanno vissuto e stanno vivendo questo particolare momento storico.
Arianna è una copywriter freelance e si racconta così: “Sono una professionista freelance, scrivo testi per siti Internet e sono specializzata nel settore turismo. Per ovvi motivi con la pandemia i miei clienti hanno avuto un calo di lavoro nel 2020 ma all’inizio le perdite per me sono state contenute. Loro erano ottimisti, mi commissionavano ancora testi da scrivere. Il mio tracollo è avvenuto nel 2021. Con le chiusure che si prolungavano il calo di lavoro è aumentato. Nello stesso anno ho fatto lo scatto dell’aliquota fiscale, dal 5% al 15%. E siccome nel 2020 le mie perdite sono state inferiori al 30% non ho diritto ai contributi a fondo perduto emessi quest’anno. Un disastro. Le preoccupazioni economiche mi hanno portata a vivere uno stato di ansia perenne, mi sento incapace di provare gioia al momento. A questo malessere si aggiunge un sentimento negativo nei confronti della mia professione, scaturito dalla constatazione che la scrittura non è considerata un’abilità professionale. Lo vedo dalla quantità di gente che vuole fare il copywriter, sembra la nuova professione salvatutti, quando non sai che fare puoi scrivere testi per internet (tanto scrivere è facile, no? Basta mettere mano a una tastiera). Ma le condizioni offerte sono imbarazzanti o umilianti: i soliti stage in azienda che non portano ad un’assunzione, le collaborazioni non retribuite in cambio di visibilità (ditemi, qualcuno è mai riuscito a pagare le bollette con la visibilità?). Le agenzie di marketing giocano al rialzo con i clienti e al ribasso con i collaboratori. Le conseguenze per me sono evidenti: a dispetto di tanti bei discorsi sull’importanza della comunicazione, i testi online sono spesso poco curati, di bassa qualità. Io invece amo la qualità. Non so proprio come reinventarmi. Negli altri ambiti lavorativi che potrebbero interessarmi, come l’editoria o l’insegnamento delle lingue, vedo dinamiche simili: tanta gente che vuole lavorare in questi settori e poche reali possibilità di lavori pagati dignitosamente. Idem nel giornalismo: non è raro che le testate giornalistiche online paghino 15 euro per un pezzo che richiede una giornata di lavoro. A volte persino meno. Di amiche giornaliste ne avevo due, amavano profondamente la loro professione ma tutte e due l’hanno abbandonata perché di scrittura non campavano. Una ha aperto una ditta di sgomberi, l’altra è andata in Spagna a fare un master di online marketing. Mi pare ovvio che dovrei trovarmi altro da fare ma non so cosa e più l’ansia aumenta, meno riesco a pensare con lucidità.”
Eleonora è insegnante di danza, appartenente quindi a una delle categorie più colpite dalla pandemia, e mamma single. Anche per lei i problemi sono iniziati ad arrivare dopo circa un anno dal primo lockdown: “All’inizio non sembrava nemmeno vero, c’era quell’atmosfera particolare, il silenzio fuori, tutti chiusi nelle proprie case ma con l’impressione di star facendo qualcosa di importante che ci avrebbe portato fuori da quella situazione in breve tempo. Avendo un contratto con la palestra per la quale lavoro ho da subito usufruito dei bonus per collaboratori sportivi e lì per lì la situazione non sembrava tanto male. Per una come me, abituata a fare mille cose e a destreggiarmi con il bimbo piccolo, devo dire che i primi tempi sono stati anche sereni. Mi sono goduta mio figlio senza stress e contemporaneamente mi sono attivata con dei piccoli corsi online per le mie allieve. Li ho fatti gratuitamente perché mi piaceva l’idea di qualcosa di utile per le persone costrette in casa, un piccolo spazio divertente che dava la possibilità di prendersi cura di se stessi. Poi però i tempi si sono allungati, la scuola di danza continuava a rimanere chiusa e le persone sono diventate sempre più stanche e con meno voglia di fare e anche io. Organizzare tutto in casa con il bimbo piccolo è stato molto difficile perché quando mi vede presente lui vuole tutta la mia attenzione e non capisce che sto lavorando. Adesso abbiamo riaperto ma dei gruppi che avevo prima non tutte le persone sono tornate. Quello che mi pesa, oltre chiaramente la situazione economica, è una sorta di stanchezza, un malessere diffuso e spesso la mancanza di entusiasmo verso ciò che amavo tanto fare”.
Francesca invece è una libera professionista, ha una sua piccola attività, realizza prodotti artigianali che vendeva nei mercati ed ha approfittato dei mesi di lockdown per ampliare la parte online che fino ad allora aveva trascurato: “ho trasformato i mesi di chiusura in una risorsa, dedicandomi molto alla parte della comunicazione del mio progetto sui social. Ora riesco a vendere abbastanza bene su internet, cosa che prima non succedeva, e sto per aprire un mio sito di e-commerce. Grazie alle numerose richieste, in piena pandemia sono addirittura riuscita ad aprire la partita Iva e di sicuro l’aumento e la familiarità che le persone hanno preso con gli acquisti online ha aiutato anche me. Questa continua esposizione al mondo virtuale però ha portato anche ripercussioni negative: col tempo ti rendi conto che quello che fai sembra non bastare mai, bisogna essere sempre super performanti, presenti, proporre continuamente cose e contenuti nuovi altrimenti la gente si stanca e passa ad altro. Questa iper connessione unita al fatto che sono sempre a casa fa sì che io praticamente non stacco mai da lavoro: passo le mie giornate alla scrivania, sabati, domeniche, feste, non esistono più perché tanto la postazione è sempre lì e, sapendo che ci sono cose da fare non riesco più a staccare. Né la mente né il corpo, che inizia ad accusare il fatto che, praticamente da un anno sto sempre ferma. Chiaro sono contentissima che ci sia lavoro e non voglio lamentarmi, ma devo cercare un modo per trovare un equilibrio sano tra l’impegno e lo svago necessario per la mia salute”
Myrea è una studentessa universitaria che sta per iniziare la specialistica: “In quanto giovane studentessa ed in quanto donna, questa situazione mi preoccupa non poco. Viviamo in un sistema estremamente patriarcale ed addirittura misogino, in alcuni ambiti.
Immaginarsi delle prospettive rosee non è semplice in questo contesto. È importante ricordare che la pandemia ha reso molto dura la vita per gli studenti. Alcuni dati di IPSOS e Save the Children riportano che in questi mesi i problemi psicologici degli studenti italiani sono aumentati di circa 24%. Infatti la DAD ha portato innumerevoli effetti negativi che si ripercuotono molto sulla salute a livello psicologico. La DAD ha infatti aumentato fortemente i sintomi di stanchezza, irritabilità e md ansia tra gli studenti.
Io mi trovo in linea con questi dati. Il mio rendimento scolastico ed universitario è sempre stato ottimo ma è diventato molto sofferto e causa di ansia e frustrazione nell’ultimo anno. Il mio livello di concentrazione è nettamente diminuito e la fatica nel concentrarmi è all’ordine del giorno, probabilmente alimentata anche da un perenne senso di noia durante lo studio e le lezioni. Non sono da sottovalutare nemmeno le conseguenze che la DAD può avere anche a livello di sicurezza e self-confidence tra gli studenti: io stessa ho rinunciato ad un esame in DAD, scollegandomi durante l’appello, a causa di un forte senso di ansia e frustrazione. Lo stesso è successo anche a mie colleghe e colleghi dell’università”.
Francesca Verdesca Zain