FOLIGNO – Presentato nei giorni scorsi nella sala Alesini dell’ospedale “San Giovanni Battista” di Foligno, il libro “Tempo, col mio amante stronzo” di Raffaele Guadagno, edito da “Nino Bozzi Editore” e disponibile in libreria e negli store digitali, in cui l’autore racconta, in modo autentico e toccante, la sua esperienza di malato di ictus.
L’incontro è stato aperto dalla direttrice del presidio ospedaliero, Orietta Rossi, che ha inquadrato l’iniziativa come una delle tappe fondamentali del progetto di umanizzazione promosso dall’azienda sanitaria nel nosocomio folignate. La dottoressa Rossi ha sottolineato come “iniziative di questo tipo contribuiscano a sensibilizzare il personale sull’importanza di considerare la persona nella sua interezza, andando oltre la dimensione puramente clinica della malattia”.
Il direttore generale della Usl Umbria 2, Piero Carsili, ha evidenziato l’importanza strategica del progetto di umanizzazione avviato negli ospedali e nei territori dell’azienda sanitaria: “Questo percorso – ha spiegato il manager – può contribuire non solo a migliorare le cure per il paziente ma anche a creare un clima organizzativo più positivo all’interno delle nostre strutture, con benefici per tutto il personale e, di conseguenza, per l’assistenza erogata”.
Il dibattito, coordinato da Mauro Zampolini, direttore del dipartimento di Riabilitazione aziendale, ha esplorato i temi centrali dell’opera di Raffaele Guadagno, approfondendo la fondamentale distinzione tra il “corpo fisico” – oggetto dell’indagine medica tradizionale con i suoi parametri misurabili – e il “corpo vissuto” – portatore di esperienze, storie e identità personali.
Numerosi gli spunti emersi durante la discussione, tra cui l’importanza di una riabilitazione realmente personalizzata, la necessità di dare dignità ai “sintomi invisibili” come la fatica cronica, la gestione del dolore secondo la soglia individuale del paziente, e il crescente problema del burnout tra gli operatori sanitari.
Significativi gli interventi del sociologo formatore Paolo Trenta e di Anita Rondoni, rappresentante AISM, che hanno riflettuto sul ruolo delle associazioni di pazienti come supporto nel percorso post-dimissione e sull’importanza di considerare i familiari come parte integrante del processo di cura.
Tra i punti discussi, riassunti da Mauro Zampolini, “la necessità di costruire percorsi riabilitativi realmente personalizzati, basati su una profonda conoscenza della persona, evitando la standardizzazione degli interventi; l’importanza di riconoscere e validare i ‘sintomi invisibili’ come la fatica cronica, difficilmente misurabili ma con impatto devastante sulla qualità della vita; il rischio di identificare i pazienti con la loro patologia (‘la leucemia del letto 25’) piuttosto che considerarli nella loro completezza umana; la gestione del dolore secondo la soglia individuale, come raccomandato dall’OMS, superando la tendenza alla minimizzazione; il crescente problema del burnout tra gli operatori sanitari, acuitosi dopo la pandemia, e la consapevolezza che non può esserci cura dei pazienti senza cura di chi cura; l’importanza delle associazioni di pazienti come supporto fondamentale nel percorso post-dimissione”.