PERUGIA – Vivere, esistere. E dimostrarlo a tutti. Perché altrimenti non se ne avrebbe la certezza. In altri termini celebrarsi in un atto autoreferenziale per riaffermare il proprio Io. Sono numerose e molto articolate le motivazioni che risiedono attorno all’atto del selfie, la tendenza dell’autoscatto ripetuto quasi coattivamente che con la possibilità infinita della riproducibilità tecnica offerta dagli smartphone, ha finito per travolgere un po’ tutti, ma soprattutto giovani e giovanissimi. Ma oltre che stabilire che lo smartphone è ormai “protesi” e prolungamento della propria persona che offre la possibilità di – appunto -“prolungarsi” verso gli altri, i selfie stanno producendo un effetto straniante e distorsivo anche sulla stesa idea di fotografia. Non basta, perché, in era Covid, la seflite è aumentata a dismisura, con picchi – è stato calcolato – di 93 milioni di autoscatti al giorno nel mondo. Una cifra che dà l’esatta dimensione di quanto sia importante ottenere il riconoscimento del proprio Io attraverso gli altri e la possibilità di apparire alla vita degli altri. E’ come se l’immagine di se stessi prendesse il sopravvento su tutto il resto e si affermasse il principio dell’esistenza dell’Io solo attraverso la visione che offro di me e del mio corpo agli altri. In realtà, come scrive Roland Barthes in “Camera Chiara”, un libro da consigliare a tutti quelli che della fotografia vogliono sondare gli aspetti più profondi, la “fotografia – intesa come foto-ritratto – rappresenta quel particolarissimo momento in cui, a dire il vero, non sono né un soggetto né un oggetto, ma piuttosto un soggetto che si sente diventare oggetto; in quel momento io vivo una micro-esperienza della morte (della parentesi): io divento veramente spettro… In fondo – continua Barthes – ciò che io ravviso nella foto che mi viene fatta (l’ “intenzione” con la quale la guardo) è la Morte: la Morte è l’eidos (l’aspetto) di quella foto”. Va da sé – come scrive lo psicoterapeuta Massimo Fagioli in “Istinto di morte e conoscenza” – che l’atto del selfie diventa allo stesso tempo una riaffermazione e un disperdersi negli altri che potrebbe equivalere ad un annullamento di se stessi nel buio dell’ambiente intrauterino. Un affermarsi, quello del selfie, che si intreccia con l’istinto di morte in una cecità che non permette di vedere oltre la propria immagine riflessa. E’ l’antico mito di Narciso che si rispecchia nelle acque del lago e che si bea della propria immagine, sino al punto di non vedere altro che se stesso. Lui stesso al centro del mondo, in fin dei conti non è mai uscito dal buio intrauterino e si “nasconde” nell’impossibilità di conoscere altro: è la morte della libido che riconosce l’oggetto altro e della conoscenza. Ma è interessante notare come i selfie – meglio i soggetti delle nostre foto – in era Covid rappresentino il segnale di una mutazione radicale della propria visione della quotidianità assumendo una stretta relazione con la dimensione sociale dell’immagine e ristabilendo canoni di comunicazione lontani dall’egolatria autoreferenziale dell’esaltazione della Nutella o dell’edonismo sbandierato al Papeete. Infermiere sconfitte dalla stanchezza di turni massacranti negli ospedali o che portano sul viso e sul proprio corpo i segni di ore e ore costrette ad indossare mascherine e presidi sanitari di autotutela, più semplicemente immagini che raffigurano la vita familiare o la perdita del lavoro nel periodo di lockdown, offrono la rappresentazione di un’altra Italia e di un nuovo paradigma di comunicazione di una moltitudine che abbandona qualsiasi residuale autoreferenzialità narcisistica per costruire il quadro di un puzzle formato da tante piccole tessere caratterizzate dall’impegno comune e diffuso per sconfiggere il Covid-19. Un impegno che segna anche un solco profondo tra un prima e un dopo in un presente che riecheggia una condivisa condizione sociale contro l’avversità e contro il demone invisibile che non l’avrà vinta nel suo tentativo di negarci un bacio o un abbraccio al termine della sua terribile offensiva. E’ in questo cambio di paradigma che i selfie e con essi la fotografia riacquisiscono quel quid che – tornando a Roland Barthes – li caratterizzano come espressioni di uno “studium”, quell’ “interesse umano” nei confronti delle fotografie che le recepisca come testimonianze politiche riferite alle figure, alle espressioni, ai gesti, allo scenario, alle azioni. “Non sono io – scrive Barthes – che vado in cerca di lui (lo studium, n.d.a.) ma è lui che partendo dalla scena, come una freccia mi trafigge… e che diventa il punctum. Il punctum di una fotografia è quella fatalità che, in essa, mi punge (ma anche mi ferisce e mi ghermisce)”.
- Claudio Bianconi in Sociale