PERUGIA – Tutto cambia. Nulla sarà come prima: un mantra ricorrente in questa nuova era iniziata in cattività. Prima ancora che fossimo travolti, spaventati, angosciati dal terribile virus che sta disseminando lutti e paure in tutte il pianeta, era Greta che ci parlava di cambiamento, partendo dal presupposto che il cambiamento climatico poneva le basi per un complessivo ripensamento delle nostre esistenze, del nostro rapporto con la Natura. Nel suo libro “La nostra casa è in fiamme” parla di un’esortazione per un’autentica battaglia contro il cambiamento. Climatico, intende lei. Questo prima della deflagrazione della pandemia. E dopo? Dopo è interessante notare come il lessico nel breve volgere di qualche giorno sia cambiato e come sia cambiato il nostro percepire le parole, le glosse, i lessemi in relazione alla nuova situazione che viviamo. Così per cambiamento ora non si intende tanto un mutamento di atteggiamento nei confronti delle questioni ambientali, quanto un cambiamento rispetto alle istanze nuove che ci troviamo a vivere: il cambiamento perde la sua connotazione ambientale, a favore di un’interpretazione sociale, sanitaria, economica, produttiva, digitale. Altro lemma che sta subendo una reinterpretazione profonda è il termine virale. Sino a qualche giorno fa godeva di un’accezione positiva, tanto che tutto quello che era virale era sinonimo di espansivo, ampio, diffuso, come mosso da una forza innata e coinvolgente che lo rendeva particolarmente ricercato, appetibile. Se un video su Youtube avesse raggiunto lo status di “virale” avrebbe significato che ci si era guadagnati il successo, più o meno inaspettato. E forse anche i dadaisti, che non potevano immaginare tutto questo, avrebbero usato più prudenza nel definirsi artisti che volevano distruggere l’arte come un virus, una pandemia che l’avrebbe sconvolta e distrutta. Maschera. Che i latini significarono in persona. Seguendo il percorso dell’etimologia del termine, persona deriva dall’etrusco phersu (maschera dell’attore, del personaggio) che proviene a sua volta dal greco antico prosopon, ovvero l’essenza di ogni singolarità, ciò che differenzia gli individui gli uni dagli altri. Persona-maschera è ormai la condizione diffusa che ognuno di noi vive nella vita quotidiana. I nostri tratti somatici nascosti dietro una maschera-persona, tutti uguali e senza distinzioni, l’esatto contrario del principio di individualità che il concetto di persona portava con sé sin dall’antichità. Distanziamento, da distanza. Un termine che indicava sino a qualche giorno fa il distacco anche in termini agonistico-sportivi, sinonimo dell’espressione di una superiorità tecnico e tattica che distanziava il talento sportivo dagli altri nella corsa solitaria verso il traguardo. Ora quel distacco, quel distanziamento è seguito dall’altro termine: sociale, a indicare un distacco gli uni dagli altri per non contagiarsi a vicenda. Una condizione sofferta che priva tutti noi dei presupposti umani, affettivi e culturali dell’esatto opposto, vale a dire della vicinanza e della prossimità. Un paradosso della nuova era che ci costringe a dimostrare solidarietà soltanto a debita distanza, magari ricorrendo al web e al mondo digitale. Ci consola la quarantena – se di consolazione si può parlare – che nella sua accezione non è cambiata di una virgola. Ovvero la definizione dello stato di isolamento cui deve essere sottoposto un malato, un untore che rischia di contagiare il prossimo. Il termine risale al XIV secolo quando l’intero continente europeo fu investito dalla peste. Quaranta erano allora i giorni di isolamento previsti perché gli equipaggi delle navi “sospette” non diffondessero il virus. La quarantena così era e così è rimasta, anche se i giorni di isolamento cui sono sottoposti i malati lievi di Covid19, sono limitati attualmente a un paio di settimane.
- Claudio Bianconi in Sociale