PERUGIA – C’è un fil rouge che lega Pino Daniele all’Umbria e l’Umbria alla musica intesa come scoperta delle tradizioni popolari, della voce e dei canti che derivano direttamente da un patrimonio, spesso che si tramandava oralmente di generazione in generazione, e che traccia un percorso che da Ernesto De Martino, padre dell’etnologia, passa per Tullio Seppilli e Valentino Paparelli, aprendo un grande varco sulle tematiche della questione meridionale. Un intreccio che si manifesta nei suoi gangli con l’affermazione della musica popolare a cominciare dagli anni a cominciare dagli anni Sessanta sino ai Settanta. In Umbria rimane emblematico il concerto della Nuova Compagnia di Canto Popolare al Festival dei Due Mondi di Spoleto, sin da allora manifestazione simbolica della cultura alta. Il pubblico si trovò di fronte in quel momento, parliamo dell’edizione del 1972, ad un autentico fragore di cultura popolare sublimata dal gruppo che seppe rivisitare e rivalutare canti e villanelle, folklore e tradizione di una Napoli che riconquistò centralità in ambito culturale, sociale e musicale. Ben lontani dal melodico e neo-melodico partenopei, fu l’avvio di quel movimento che prese il nome di Napule’s Power e che riecheggiò nel mondo il riscatto della città simbolo del Meridione in eterno conflitto con l’idea di arretratezza e sottosviluppo dipinta dai media e dalle concezioni economicistiche dei centri di potere. Ma la musica è altro e la Napoli della precarietà, dei disoccupati, dei femminielli fece da contraltare con i tratti di un riscatto artistico e sociale, personaggi del calibro di Pino Daniele, Tony Esposito, Edoardo Bennato, Tullio De Piscopo, James Senese e molti altri grandi della musica italiana e internazionale. Il potere, il power che sta alla base di questo cambiamento di visuale su Napoli e in generale su tutto il Sud, ricorda molto il Black Power che si affermò negli Stati Uniti nello stesso periodo per l’affermazione dei diritti delle minoranza afroamericane e contro la segregazione razziale. C’era e c’è ancora forse uno strisciante razzismo e una evidente stigmatizzazione delle minoranze inoperose del Sud Italia nelle classifiche della produttività, in quelle del reddito pro-capite, nei livelli occupazionali, nella produzione di Pil di cui tutti a volte ci pieghiamo, senza renderci conto della complessità delle realtà territoriali e dei loro reali problemi. In realtà Napoli è questo, ma è anche e soprattutto molto altro, la sua comunità non è mai ferma su se stessa ed è in continuo divenire, dimostrando una porosità che la rende permeabile a influenze e riferimenti culturali molto diversi gli uni dagli altri. Chi, più di ogni altro, seppe trovare una sintesi che esprimesse con completezza questo crogiuolo di tratti identitari amalgamati in un’unica espressione artistico-musicale fu Pino Daniele, di cui ricorrono il 4 gennaio, i 5 anni della scomparsa. Il blues del black power e i riferimenti ritmici al Mediterraneo, Pino Daniele riscattò i semplici, i disoccupati, gli emarginati, i subalterni definendo un mondo “altro” dagli stereotipi del melodismo manieristico-musicale che sino ad allora aveva imperato. Al di là del fatto che nel segno di quella porosità Pino Daniele, sul finire del suo itinerario artistico, rafforzò con più convinzione lo sguardo verso il blues e l’America e al di là del fatto che Pino Daniele rimane tra gli artisti pop che con più frequenza apparve a Umbria Jazz, compresa l’edizione del 1992 quando in piazza IV novembre si presentò da solo con la sua chitarra in compagnia di Massimo Troisi, a lui va il merito indiscusso di aver segnato il riscatto di Napoli nella cultura popolare italiana.