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Che ne è rimasto oggi delle grandi anime di Gandhi e Capitini?

Gandhi

L’attualità sempre più stringente dell’idea di pace e nonviolenza

PERUGIA – Cosa rimane oggi della nonviolenza? Quale forma di interpretazione accoglie in noi l’idea capitiniana della pace e il rifiuto di qualsiasi forma di sopraffazione di un individuo, meglio di una forma di vita sull’altra? In tempi di populismi che riecheggiano un ideale di giustizia sociale più simile al giacobinismo moraleggiante che all’esigenza della ricerca di un nuovo equilibrio tra forze antagoniste, il pensiero del “gigante” che dominò gli anni Sessanta del secolo breve nell’imposizione dell’ideale di una resistenza passiva da ogni forma di intolleranza, di violenza, di guerra e di contro l’imperativo della persuasione come fine di ogni lotta sia politica che sociale, rende Gandhi, il Mahatma, la grande anima indiana, teorico del satyagraha, la resistenza all’oppressione tramite la disobbedienza civile di massa che ha portato l’India all’indipendenza, di stringente attualità. Il satyagraha è fondato sulla satya (verità) e sull’ahimsa (nonviolenza). Il 2 ottobre prossimo si festeggiano nel mondo i 150 anni della nascita di Gandhi che nel corso della storia e dei movimenti ideologici e politici del pianeta, ha rappresentato la stella polare di grandi figure che hanno lottato per vedere riconosciuti i diritti civili delle popolazioni di riferimento: da Martin Luther King negli Stati Uniti a Nelson Mandela in Sud Africa sino a Aung San Suu Kyi in Birmania, ora Myanmar. In Italia sin dagli esordi degli anni Sessanta, Aldo Capitini, grande figura di intellettuale ancora oggi troppo sottovalutato e di cui quest’anno (23 dicembre) si celebrano i 120 anni della nascita, si impose all’attenzione generale come colui che seppe unire alla riflessione sulle “tecniche della nonviolenza”, la costruzione di strumenti di azione duraturi e ancora attivi, mezzo secolo dopo: la “Marcia della Pace per la fratellanza tra i popoli”, realizzata per la prima volta il 24 settembre 1961; la fondazione del Movimento del nonviolento, nel gennaio del 1962; la creazione, nel 1964, della rivista “Azione nonviolenta”, concepita come mezzo di formazione e informazione sulla nonviolenza in Italia e nel mondo.
“Per la sua solida articolazione e, al contempo, per la sua apertura alla sperimentazione – scrive Thomas Casadei –  la sua prospettiva rivela tutta la sua efficacia nel mettere a punto strategie per contrastare le tre diverse forme di violenza, individuate da Johan Galtung e che a tutt’oggi paiono rappresentare uno schema dominante, in forte e aggressiva espansione su scala planetaria e nei diversi contesti locali e urbani.
Oltre che con la violenza diretta della guerra e con la violenza strutturale del potere autoritario, occorre fare i conti con quella che il filosofo norvegese considera “la violenza più profonda, più difficile da sradicare, più persistente nel tempo: la violenza culturale”.

Scrive Giuseppe Moscati, presidente della Fondazione Centro Studi Aldo Capitini: “Mi pare interessante analizzare come Aldo Capitini valuti – non senza ironia – l’Importanza di Gandhi (titolo di uno dei 23 scritti confluiti nella raccolta del 1949 Italia nonviolenta) e la percezione della figura del filosofo indiano nel nostro Paese: “Qualcuno in Italia crede che Gandhi sia un fachiro. Qualche altro sorride alle sue stranezze, alla veste, al telaio, alla capra, al digiuno. E non pensa che la veste è quella degl’ “intoccabili”, dei milioni e milioni di esseri umani che non possono essere toccati senza purificarsi, da Gandhi assunta deliberatamente. Non pensa che il voto di lavorare ogni giorno mezz’ora al telaio significa dare l’esempio della soluzione del problema della miseria dei rurali indiani […] e significa anche il principio di Gandhi di dare lavoro invece che regali. Non pensa al valore del vegetarianesimo come affetto agli esseri subumani che ci volgono quotidianamente un muto appello, e non pensa che il digiuno può essere un voto, una rinuncia per un valore […]” (A. Capitini, Importanza di Gandhi, in Id., Italia nonviolenta [1949], Fondazione Centro studi Aldo Capitini, Perugia 1981, p. 85, NdA).
Da queste “stranezze” gandhiane evidenziate da Capitini, a sua volta da molti considerato bislacco, emerge un profilo del Mahatma come di un energico educatore alla lotta politica quale opposizione ad ogni forma di violenza. Qui Capitini, lui stesso educatore alla lotta politica, opera: un’aggiunta valoriale che libera l’opposizione alla guerra e alla violenza in genere facendola evolvere in atteggiamento positivo, in proposta nonviolenta. Non a caso matura la convinzione che il termine nonviolenza vada scritto tutto attaccato: allo stesso modo in cui la pace non è e non può ridursi a intermezzo tra due guerre, a tregua ovvero a mera assenza di atti belligeranti, la nonviolenza non è e non può ridursi a sospensione della violenza, a obiezione ovvero a resistenza ad atti violenti.
Il contesto a cui fare riferimento è insieme etico, politico e religioso nel senso della religione aperta di Capitini (l’opera omonima, edita da Laterza nel 1955, sarebbe stata messa all’Indice da Pio XII): direi libero-religioso. In aperta critica verso le posizioni di un Machiavelli o di un certo realismo politico, assieme a quello gandhiano Capitini rilegge anche il messaggio mazziniano e afferma senza mezzi termini l’equivalenza di mezzi e fini per far comprendere come un fine non può essere considerato nobile se nobili non sono i mezzi scelti per perseguirlo e metterlo in atto. L’esempio dell’educazione alla nonviolenza stessa, fine nobilissimo, è assai indicativo: “Non si può insegnare la nonviolenza con l’odio e le fucilate. Se io voglio che tu agisca da persuaso interiormente, bisogna che io prima sia in tutto persuaso e non retore” (Aldo Capitini, Il problema religioso attuale, in Id., Le ragioni della nonviolenza. Antologia degli scritti, a cura di M. Martini, Ets, Pisa 2004 [rist. 2007, nuova ediz. 2016], p. 63).
La protesta e il dissenso del persuaso hanno per questo da attivarsi, eticamente, politicamente e religiosamente, per una nuova costruzione e una nuova socialità perché la scelta della nonviolenza non rimanga definibile solo a partire dal suo contrario. È muovendo da questo intento di fondo che Capitini ragiona sull’idea di persuasione nonviolenta come un orizzonte di senso in cui convergano e siano rivisitate il gandhiano satyagraha, che abbiamo visto essere sostanzialmente “forza della verità e dell’amore”, e l’ahimsa, una “non violenza” quale radicale disapprovazione di ogni violenza che si traduce in innocente rigetto di attuare/permettere il male.

In un senso positivo e attivo nonviolenza è, necessariamente, apertura anche alla libertà e alla condizione esistenziale di chi invece è implicato per un verso o per l’altro in dinamiche violente. Ecco la legge morale, per richiamare un’eco kantiana, della compresenza, che per Capitini è un abbracciare coralmente, omnicraticamente e dal basso tutti gli esseri, quelli non umani compresi.
Per il filosofo umbro è decisivo contemplare anche l’eventualità del sacrificio personale per affermare in chiave finalmente positiva la strategia e la prassi nonviolente. La costruzione della proposta nonviolenta passa allora dalla liberazione della realtà e solo l’ “unità amore” della realtà liberata può far sì che la violenza, la morte, l’esclusione e le diversificate forme di sofferenza si trasformino in qualcosa di migliore. Siamo aperti a questa trasformazione possibile”.

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