PERUGIA – Bird, uccello. Sembrava possedesse ali per davvero Charlie Parker con i suoi salti di ottava, con quell’incedere per terzine, con quell’insistere sul ritmo. Harlem fu investito dalla sua irrefrenabile energia e dal suo genio. Ma di Bird è stato scritto molto e qui vogliamo soltanto ricordare il contesto sociale e culturale in cui maturò la rivoluzione del Bebop. Charlie Parker nasceva 100 anni fa a Kansas City che, dopo New Orleans, può essere considerata la seconda patria del blues. Bird – come fu chiamato ad Harlem – dimostrò subito una fervida capacità cognitiva, un’intelligenza spiccata che non impiegò subito nella musica, ma già a 17 anni lavorò professionalmente come musicista, ormai stregato dal jazz. Di Charlie Parker si è detto tutto e si sono versati fiumi di inchiostro; tutti ne hanno riconosciuto il genio assoluto che oltre che a rivoluzionare il jazz orientandolo nella nuova via del Bebop, ha contribuito a ridefinire anche socialmente l’idea del “negro” americano in quanto artista nel vero senso della parola, sdoganandolo dal ruolo di entertainer che al massimo poteva aspirare in un posto in una grande orchestra da ballo. In effetti Bird guizzò nel jazz liberandolo dagli schematismi del swing e introducendo una fortissima caratterizzazione ritmica, creando per la prima volta tutti gli elementi di una tensione e di una torsione musicale sino alla spasmo. Non amava soffermarsi sui temi, neanche nelle ballad, inventò quell’incedere tra il nascondere e il riaffiorare del “discorso” musicale che in seguito fu ampiamente adottato dalle future generazioni di jazzmen. Insomma Charlie Parker fu il vero inventore di “quel qualcosa di nuovo” che negli anni a cavallo tra le due guerre stava per accadere nel jazz e che si conclamò nel Bebop. Ma, al di là del genio, peraltro ben presto bruciato dagli eccessi di una “bulimia” di vita che condannò Bird ad una precocissima morte, a soli 35 anni, è interessante notare sotto l’aspetto sociologico ciò che maturò quella svolta radicale nell’ambito del jazz che era e rimane tuttora una delle urgenze sociali e artistiche dell’identità afro-americana e che per molti versi in tempi recentissimi è stata rivisitata in più ambiti, costume e moda compresi. Lo spiega benissimo Arrigo Polillo nel suo volume “Jazz” (Mondadori), nella versione aggiornata da Franco Fayenz. Bird aveva già conquistato un largo seguito e “divenuti un breve una vera e propria setta, i boppers si dimostrarono smaniosi di differenziarsi dalla massa, di isolarsi, quanto di uniformarsi tra loro, si imitavano l’un l’altro anche nel modo di comportarsi, di gestire, di parlare, di vestire, scimmiottati a loro volta dai sostenitori e amici, gli hipster, gente non conformista, aggiornatissima, addentro alle segrete cose, “hip”, come si diceva allora, a cui si contrapponevano tutti gli altri, e cioè gli squares, gli ottusi, i borghesi conformisti e non informati. Nel microcosmo dei bopper e degli hipster le mode si diffondevano in un baleno. La più vistosa riguardava l’aspetto esteriore: il bopper di stretta osservanza aveva costantemente un’espressione impassibile, un berretto basco in testa, non si separava neppure quando suonava in qualche semibuio locale notturno, di un paio di occhiali neri dalla pesante montatura, e sotto il labbro ostentava un “goatee”, uno di quei ciuffi di peli che noi chiamiamo mosche. Chi voleva assumere il “new look” senza perdere tempo poteva acquistare con poca spesa il “Bop kit” e cioè l’intera serie di aggeggi: berretto, occhiali (solo la montatura) e un goatee artificiale, da applicarsi al mento. E’, tra l’altro, interessante notare che il “Bop kit” fu rimesso in commercio oltre dieci anni dopo, a San Francisco, come “beatnik kit”. I beatnik, la cui ora scoccò alla fine degli anni Cinquanta, e che ebbero proprio a San Francisco la loro roccaforte, furono infatti gli eredi spirituali degli hipster e furono come loro degli ardenti ammiratori di Charlie Parker e del Bebop. E’ inoltre interessante notare che dal suffisso “hip” nacquero dieci anni più tardi dei beatnik, gli hippie che posero le basi per la nuova rivoluzione culturale del Sessantotto che affondava le radici nei movimenti pacifisti nati in antitesi alla guerra in Vietnam (n.d.a.). Più sorprendente per il profano parve un’altra moda che in quei tempi fu interpretata come un’altra delle tante bizzarrie dei bopper: quella della conversioni alla religione musulmana che proprio nella stagione d’oro del bop si moltiplicarono, nella comunità “afro” di New York. Chi abbracciò allora la nuova religione e adottò un nome arabo, tuttavia, non voleva tanto dimostrarsi hip, quanto trovare una soluzione ai difficili problemi che gli poneva il colore della pelle. Un arabo musulmano, dopotutto, può essere rispettato in America più di un “negro” discendente da schiavi. E poi, diventando maomettano, un “negro” comincia a sentirsi un poco meno americano e un poco più africano. Le conversioni alla religione musulmana dilagò. Da ricordare, in un altro ambito rispetto a quello musicale, quella di Cassius Clay – Muhammad Alì.