Capire il concetto senza le parole giuste
Mussolini ha fatto anche cose buone. La libertà di pensiero non esiste. L’Europa è cattiva. Le donne sono inferiori. Le mono famiglie non hanno diritti. Il cambiamento climatico è sotto controllo. I migranti rubano il lavoro. Il matrimonio gay e l’aborto sono immorali. Privatizziamo la scuola pubblica. Tagliamo le tasse e la cultura. I vaccini sono causa dell’autismo. La donna stuprata se l’è cercata. I giornalisti sono dei pennivendoli. La mafia aiuta più dello Stato. Dio nasce da un racconto popolare. Auschwitz è un’invenzione. La pedofilia è uno stile di vita.
Oscar Wilde diceva che “l’istruzione è una cosa ammirevole, ma bisognerebbe ricordarsi ogni tanto che niente che valga la pena di sapere può essere insegnato”. Assunto che verrà confermato da psicologi come Steven Pinker che vedranno nel “linguaggio un pezzo a sé del corredo biologico del nostro cervello”.
Non sono solo parole quelle che ho riunito all’inizio. Sono metafore concettuali che si insinuano nel discorso pubblico veicolandone idee e pensieri. Sono azioni che alla lunga sono volte a sottrarre legittimità e diritti. Sono concetti importanti che vengono usati indistintamente dalla politica di destra e di sinistra, come anche dalle grandi imprese, con l’obiettivo di esacerbare il significato di quelle stesse parole spostando l’attenzione, l’interesse e il senso comune verso una precisa visione. A forza di ripeterle entrano nelle credenze culturali e vi si stabiliscono. Efficaci soprattutto nei momenti di crisi in cui gli equilibri vacillano e gli ideali vengono smarriti. Senza punti di riferimento, la base su cui si fonda la conoscenza empirica diventa negoziabile e perde di valori.
Ciò che il sociologo Erving Goffman definì frame, o quella cornice che definisce il contesto della realtà, viene ripreso dallo scienziato cognitivo George Lakoff nella nuova edizione pubblicata da Chiarelettere Non pensare all’elefante! che ambisce a spiegare i meccanismi che stabiliscono il nostro comportamento politico e sociale: “I frame sono cornici mentali che determinano la nostra visione del mondo e di conseguenza i nostri obiettivi, i nostri progetti, le nostre azioni e i loro esiti più o meno positivi (…) Il linguaggio è una spia, [perché] ogni parola si definisce in relazione a un frame concettuale sottostante” si legge nelle prime pagine. Parlare di reframing nel discorso pubblico equivale a cambiare il punto di vista e a spiegarlo, in modo che chiunque possa comprenderlo e condividerlo onestamente, senza il bisogno di manipolare ogni bisogno umano.
Essendo parte di quello che siamo le nostre idee possono (re)esistere all’ambiente ma siccome i frame vengono attivati dal linguaggio, per mutarli bisogna cambiare prima di tutto il vocabolario. Quindi ad esempio, riprende Lakoff: “I progressisti dovrebbero evitare di usare il linguaggio dei conservatori e i relativi frame che quel linguaggio attiva, ed esprimere invece le loro convinzioni utilizzando il proprio linguaggio al posto di quello degli avversari”. Ciò trova particolari riscontri non solo negli Stati Uniti dove questo libro è contestualizzato, ma anche in Europa e in Italia. Se il framing consiste nel trovare un linguaggio adatto alla nostra visione del mondo non ha senso ricercarlo in un modello che vi si oppone per sua natura, perché il risultato che si otterrebbe e che si ottiene è quello di confondere il proprio elettorato e dare maggiore forza al rivale. Quale che sia il modello che si sceglie di seguire (Lakoff divide tra il modello del “padre severo” per i conservatori che si basa sul concetto tradizionale di famiglia che è dominata e su un’autorità morale, il capofamiglia, che sa distinguere il bene dal male ed è l’unico a poter imporre disciplina; il modello del “genitore premuroso” per i progressisti, invece, in cui il compito dei genitori è quello di prendersi cura equamente dei figli ed educarli verso l’empatia, la responsabilità e l’impegno per se stessi e il prossimo) molte delle questioni trattate dalla politica, e poi dallo Stato, travalicano la libertà personale, la dignità umana e la giustizia.
Che le parole siano importanti lo ha recentemente messo in evidenza il Barometro dell’odio pubblicato da Amnesty International dedicato alle scorse elezioni europee e a quei politici che per favorire il loro consenso, anziché introdurre nuove forme di comprensione, hanno utilizzato di proposito parole e discorsi d’odio (hate speech) per fomentare le masse e scatenare polemiche. Lo riconosce Federico Faloppa, dell’Università di Reading, che nel Rapporto di Amnesty scrive: “Il problema non sembra soltanto quello di una presenza massiccia di discorsi d’odio, ma anche la compattezza, a destra, di stilemi, lessici, retoriche solide e riconoscibili”.
I conservatori, quindi la destra, per tornare al pensiero di Lakoff dal quale siamo partiti, propongono di fatto un linguaggio ben più consolidato rispetto ai progressisti, quindi la sinistra, usando spesso una strategia comunicativa << orwelliana>> che all’occorrenza significa l’opposto di quello che dice. Impreziosisce le parole di nuovi contenuti rendendole familiari e ponendo le basi affinché le persone siano finalmente (pre)disposte ad ascoltare e a recepire il messaggio, seminato e ribadito in modo continuativo, arrivando a pensare (anche per ipocognizione) che quella sia proprio la loro idea.
Dunque, sembra che solo quel serio giornalista che non ignora la realtà ed è supportato da un confronto e da una costante discussione pubblica, possa aiutare a conoscere i fatti e a metterli in relazione (causalità sistemica), districandosi dalle strumentalizzazioni per comprendere e studiare ciò che parte dal proprio ruolo.
George Lakoff, Non pensare all’elefante! Come riprendersi il discorso politico, Chiarelettere Editore 2019, pagg. 241, euro 17.