“Antologia del male”: a Perugia reading di letture il 3 febbraio a San Matteo degli Armeni

PERUGIA – Domani, venerdì 3 febbraio, alle ore 17.30 alla biblioteca di San Matteo degli Armeni a Perugia, verrà “sfogliata”  l’Antologia del Male con un reading sulle vittime dei genocidi. Le letture sono a cura di Alberto Mori con le voci di Stelio Alvino, Fausto Belia, Silvia Bevilacqua, Caterina Martino, Sebastiano Ragni. Questa iniziativa è inserita nel programma del Comune  di Perugia in occasione del Giorno della memoria 2023.
Promotori l’associazione Vivi il Borgo, l’associazione culturale Nemo, la Società Operaia e la Banca del Tempo di Perugia, in collaborazione e con il patrocinio del Comune di Perugia.
Da sottolineare che l’incontro rappresenta il coerente collegamento  con la mostra “Antropologia del Male. Le vittime del nazismo nei racconti fotografici dei soldati tedeschi”, che si può visitare fino a domenica 5 febbraio al centro espositivo ex chiesa di Santa Maria della Misericordia in via Oberdan.
E su questa mostra abbiamo raccolto l’interessante lettura che fornisce ai lettori di vivoumbria.it  Rolando Marini professore ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi,  prorettore dell’Università per Stranieri di Perugia.
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Antropologia del male: immagini della storia, vittime e carnefici

di Rolando Marini

Quando una mostra fotografica colpisce e sa di straordinario, occorre parlarne. Occorre invitare le persone sensibili e curiose ad andare a visitarla. Si intitola Antropologia del male. Le vittime del nazismo negli album dei soldati tedeschi, ed è allestita in via Oberdan a Perugia, nello spazio di Santa Maria della Misericordia, fino a domenica 5 febbraio. Nei primi  cinque giorni ha fatto registrare seicento presenze, ma ne merita altrettante e ancora di più.

Carro merci, dentro i deportati ebrei

L’esposizione, inaugurata nel Giorno della memoria, il 27 scorso,  propone circa novanta riproduzioni di fotografie scattate da militari tedeschi nei primi tre anni (1939-1942) della seconda guerra mondiale, nei paesi occupati, quali Polonia, Francia e Russia (in particolare Bielorussia e Ucraina). La guerra non aveva ancora preso una brutta piega per le forze militari tedesche e gli ufficiali dell’esercito occupante potevano sentire di avere la situazione sotto controllo. I comandi militari non avevano vietato ai soldati di scattare fotografie e ci troviamo quindi di fronte ai loro reportage di guerra, di occupazione e di deportazione. Che i militari sul campo realizzassero i loro personali reportage o raccolte di foto-ricordo era anzi stato incoraggiato, poiché si sarebbe tradotto nella propagazione dell’orgoglio militare nazionale, nella celebrazione collettiva e molecolare della conquista, da parte delle famiglie e delle cerchie sociali. Ma non solo conquista: anche  sopraffazione e soggiogamento, sia di soldati nemici, sia di civili, e tra questi soprattutto ebrei.

Suseja, Russia

Prigionieri in fila per essere portati via, prigionieri impegnati nei campi di lavoro, cadaveri accumulati e coperti di calce, donne rom a cui si chiede di mostrare il seno; quartieri dei ghetti ebraici invasi dai rastrellamenti. Tutto “raccontato” con freddezza, documentato con la soddisfazione del risultato raggiunto. Appunto, per inviare o riportare a casa la testimonianza del successo ottenuto, in quella che fu non solo una guerra tra eserciti ma pure un esercizio di violenza verso le popolazioni, verso gruppi etnico-religiosi, ideato, pianificato e realizzato con efficienza. Fino in fondo, fino al termine ultimo della strategia di assoggettamento e di sterminio.

Lo sguardo fotografico che queste immagini permettono di individuare è esteticamente raffinato. Le composizioni, infatti, sono accurate e ispirate a regole e stilemi che già negli anni Trenta superavano la rigidità della iconografia classica, fotografia compresa. Si nota una sorprendente consapevolezza dei vettori dinamici di una scena, che portano un’immagine ad acquisire drammaticità. Le macchine fotografiche erano quelle della fotografia di movimento, adatte al fotografo turista, ma anche al fotoamatore avanzato. È proprio di questo tipo di fotografo, perlopiù nella veste di ufficiale, che l’esposizione ci offre una rassegna di scatti.

Orel, Russia

Se ci sforziamo di andare oltre l’aspetto documentaristico,  capiamo il duplice significato del titolo, dell’idea impressa dai curatori nell’espressione Antropologia del male. Da una parte le vittime, che sono il “soggetto” fotografato: subiscono il male, poiché sono considerati in modo naturale da sottoporre alla forza, alla costrizione, alla morte. Dall’altra parte (dalla parte del mirino fotografico) i carnefici, che di questo esercizio di sopraffazione fanno un oggetto di ostentazione, di mostra di sé come eroi efficienti. Sopraffazione, già nell’atto della ripresa, del ritrarre a piacimento chi non può dire di no. O del ritrarre chi è stato ammazzato, come segno di vittoria. Ecco allora la dualità. Il male subito, espresso nella sofferenza e nello sgomento delle vittime, lacera la nostra sensibilità, attualizza emotivamente quel senso di una storia che si traduce in tragedia umana incommensurabile. Nello stesso tempo, però, ci scuote la sete di immagini, la voglia di reportage dei militari vincitori e occupanti, organizzatori e sentinelle della reclusione o dell’uccisione. Una specie di sadica perversione dello sguardo, che ritrae il sopraffatto, ridotto all’impotenza.

Certo, non è una cosa nuova. Tanti dipinti dell’antichità ritraggono i vinti, esprimono volutamente la degradazione inflitta allo sconfitto. Quello che sorprende di queste fotografie è che sono il risultato di una moda diffusasi tra i militari; ossia il segno – oltre che della massificazione incipiente della fotografia – del propagarsi dal basso di un immaginario da condividere, nella sua essenza amorale, etnocentrica e sprezzantemente razzista. Ma, forse, anche indicatore di quello strano mix epocale di spavalderia giovanile e militaresca, di tracotanza e cinismo, di negazione di empatia con chi si considera inferiore o pericoloso. Perché provare questo è normale, o doveroso. Fino al conformismo gratificato del fissare su pellicola i diversi successi della violenza, di una violenza non semplicemente bellica.

Devo poi osservare che alcuni scatti non fanno trapelare questa forma tremenda di gratificazione o di ostentazione della sottomissione organizzata. In alcune istantanee si intravede il prelievo fugace di una realtà sgomenta e sofferente, che sembra suscitare nel nostro ufficiale fotografo (che non solo ha scattato ma anche selezionato e raccolto in album)  almeno un sussulto, o forse un interrogativo, come nel caso delle due giovani donne bielorusso che scappano con degli scarponi in mano.

Questa eccezionale mostra si deve all’impegno e alla genialità delle tre persone che l’hanno ideata, preparata e realizzata.

Marco Trinei è l’architetto collezionista che per alcuni anni si è dedicato al reperimento e all’acquisto di circa settanta album fotografici di questo tipo, presso case d’asta o fiere. La sua passione di collezionista, specialmente di fotografie d’epoca, fa di lui una miniera di memoria iconografica della contemporaneità. È suo il pregevole testo introduttivo del catalogo della mostra, utile e intenso.

Cristiana Palma è studiosa di storia della fotografia, e ha collaborato con riviste specializzate di arte e di fotografia, come Archivio fotografico Toscano,  Contemporart, Il fotografo e FP Magazine.

Martina Barro, di formazione socio-psicologica, è vicepresidente e motore organizzativo di Vivi il borgo, l’associazione (del rione di Porta Sant’Angelo), che fa da contesto e da promotore di questa come di altre precedenti iniziative culturali.

Tra i vari eventi ideati e realizzati da questo trio, va ricordata la mostra dello scorso dicembre sulle carte da gioco nella storia dei paesi europei (nello spazio espositivo della Domus Pauperum).

Si tratta di iniziative tipicamente glocal, nel senso migliore del termine. Congiungono l’attivismo culturale locale a temi di respiro internazionale, con uno sguardo tutt’altro che provinciale, con grande competenza e capacità creativa.

La mostra ha inoltre beneficiato del patrocinio del Comune di Perugia e della partecipazione della Società di Mutuo Soccorso, a dimostrazione del fatto che fare rete permette notevoli risultati.

 

LA MOSTRA

Sulla mostra abbiamo l’opportunità di offrire ai nostri lettori anche le riflessioni di Marco Trinei esperto e studioso di fotografia e autore, tra l’altro, del volume “Fotografie e fotografi di Perugia. 1850-1915”. (Edizioni Futura).

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Il filo della memoria

di Marco Trinei

Ghetto Piotrkow, Polonia, aprile 1941

Nel corso della seconda guerra mondiale l’esercito tedesco, a differenza di altre forze armate, non impedì ai propri soldati di scattare fotografie durante il servizio militare. Al contrario, questa attività fotografica venne quasi istituzionalizzata e incoraggiata. I soldati di alcuni reparti ricevettero addirittura l’incarico di realizzare dei veri e propri reportages delle campagne militari, che poi venivano distribuiti o venduti tra i soldati. Furono anche messi in commercio album ricordo per la raccolta di fotografie espressamente dedicati al servizio militare, con copertine che ne evocavano simboli e insegne (elmetti, mezzi militari, aquile reali, svastiche.). Spesso questi album recavano la scritta ‘AusMeinDienstzeit’ (Dal mio servizio militare) o ‘Kriegserinnerungen’ (Memorie di guerra). Alcuni album erano dedicati a specifiche unità, di cui venivano delineate, in una sorta di sezione introduttiva, la storia e la composizione.

Questa libertà di documentazione fotografica, unita alla grande diffusione che la fotografia ebbe in Germania sin dagli anni venti, produsse una enorme quantità di scatti di tematica militare. Prima dello scoppio della guerra, le riprese documentavano il servizio di leva raccontando, con notevole dettaglio, le fasi dell’addestramento, la vita nei reparti, i commilitoni. A partire dell’invasione della Polonia, nel 1939, i soldati tedeschi iniziarono a inserire negli album, con altrettanta sistematicità, foto che narravano i fatti della guerra.

Queste raccolte di fotografie sono molto varabili nella consistenza, nella qualità e nei contenuti. Alcune si limitano a fotografare l’autore ed i propri commilitoni nei momenti di pausa dai combattimenti. Altre, più interessanti, cercano di documentare i luoghi e gli avvenimenti della compagna militare riproducendo, con uno sguardo quasi ‘turistico’, ciò che suscitava l’interesse dell’autore. Una importante caratteristica di questi scatti è la libertà nella scelta dei soggetti consentita dalla quasi assenza di censura. A differenza dei reportages prodotti dai fotografi di guerra, ordinati dagli alti comandi militari del III Reich come forma di propaganda e prova della realizzabilità dei progetti di nazificazione (?) dell’Europa, queste immagini non devono necessariamente dare rappresentazione positiva e ‘vincente’ della guerra, ma spesso si soffermano sugli aspetti più negativi, brutali e ‘impresentabili’ del conflitto.

Abbiamo così scatti che mostrano i morti, le distruzioni, le sofferenze della popolazione civile, fino a documentare senza remore i crimini che il nazismo ha perpetrato contro ebrei e profughi, prigionieri e prigioniere di guerra, partigiani e  popolazioni Rom. In particolare verso gli ebrei si nota una speciale attenzione tesa a sottolineare le condizioni di vita miserabili, le umiliazioni che dovettero subire, i tratti somatici che richiamano quelli dalla peggiore propaganda. È impossibile non riconoscere in questi scatti lo spirito di rivalsa di chi ci mostra con soddisfazione la sconfitta di un ‘altro’ che incarna profondamente il proprio nemico storico. Uno sguardo spogliato di qualsiasi empatia che ci testimonia quanto intimamente e diffusamente il nazismo abbia fatto breccia nell’animo del popolo tedesco.

Il materiale fotografico così prodotto costituisce una straordinaria fonte di documentazione storica e socio-antropologica in grado di evocare, con la vivida oggettività che solo la fotografia può produrre, gli avvenimenti di uno dei periodi più bui della storia europea. Le immagini qui riunite, tratte da una vasta collezione di album di soldati tedeschi e totalmente inedite, sono dedicate alle vittime, dirette o indirette, del nazismo. Come conseguenza delle politiche criminali di sterminio volute da Hitler, e fatte proprie dai suoi volenterosi carnefici, più della metà dei prigionieri russi che affollano molte foto morirà di stenti prima dell’anno successivo. Gli ebrei che vediamo nei villaggi o nei ghetti della Polonia e dell’Ucraina, saranno ben presto deportati in massa nei campi di concentramento e qui sterminati.

Il  corpus di immagini selezionate può essere sintetizzato da un’efficace e famosa formula, cosa accade quando il sonno della ragione genera mostri.

Sebbene l’approccio degli album sia di tipo documentaristico da ‘viaggiatore’, quello sguardo svela l’epopea di un’ideologia aberrante nel perseguire l’obiettivo della soluzione finale. Un folle progetto che, decimando milioni di vittime, ha rappresentato un unicum nella storia dell’umanità.

Il titolo della mostra e del catalogo ci ricordano che quel male, storicamente collocato, va riconosciuto e fermamente attribuito agli uomini e alle società che accettarono le logiche aberranti del ‘nemico’ e che in nome di un’ideologia de-umanizzante hanno compiuto atrocità inimmaginabili: quelle che i soldati delle armate sovietiche, quel 27 gennaio 1945, fecero conoscere al mondo intero entrando ad Auschwitz.

Quei ‘ricordi’ presenti negli album fotografici sono raccolti e collocati assieme ad altri che il senso comune è naturalmente portato ad associare a dimensioni delicate dell’esistenza, la famiglia, le amicizie, i ricordi di eventi gioiosi e di svaghi. Questo ci conferma di quanto il male sia,  per utilizzare l’efficace definizione di Hanna Arendt, terribilmente banale. Ma di contro a questa tragica e per certi versi inaccettabile verità, è commovente pensare che queste fotografie rappresentano in moltissimi casi l’unica immagine, l’unico ricordo del passaggio sulla terra di queste creature vittime del male . E’ tutto ciò che resta di loro.

E ci conforta il pensiero di come, paradossalmente, gli autori di questi scatti, che molto probabilmente con i loro scatti privati volevano consapevolmente documentare la loro superiorità e potenza militare, ci consentono oggi di ricordare e onorare le vittime della loro tracotanza. Un vero contrappasso della memoria storica.

 

Redazione Vivo Umbria: