PERUGIA – Miniserie in sei puntate da circa un’ora ciascuna, tutte disponibili su Sky dal 23 aprile e da guardare tutte d’un fiato. Difficile fare una recensione utile al lettore di questa rubrica, per fargli eventualmente decidere se impiegare queste sei ore scarse per Ammaniti o affaccendandosi in altri impegni. Intanto ci sono due ostacoli preliminari. Il primo: se avete letto il bel libro di Ammaniti (del 2015) rischiate di distrarvi pericolosamente cercando concordanze fra libro e film ed eventualmente lamentandovi delle discordanze; siete quindi avvertiti: si tratta di un’Anna differente. Il fatto che l’autore sia sempre Ammaniti significa poco, perché la rappresentazione in prosa – con linguaggio scritto – offre possibilità (e ha limiti) non comparabili con la narrazione audiovisuale. Inoltre, perché mai Ammaniti, nella rivisitazione della sua storia, doveva essere fedele a se stesso e non esplorare diversamente quel suo stesso mondo? Quindi: la miniserie è simile ma diversa dal libro, e dovete sgomberare la mente per godervela. Il secondo ostacolo riguarda il “genere”; Anna è un lungo film apocalittico, o post-apocalittico, che narra (nessuno spoiler, è rivelato sin dalle prime battute della prima puntata) la morte di tutti gli adulti del pianeta a causa di un virus. Sopravvivono bambini e adolescenti, che con l’ingresso nell’età adulta sono a loro volta destinati ad ammalarsi e morire. Effettivamente Anna può essere visto semplicemente come l’ennesimo prodotto di questo filone, oggi assai popolare, ma così non può dare piena soddisfazione allo spettatore. Ammaniti pone troppe domande senza risposte, introduce troppi simboli, alcuni eclatanti e altri semi nascosti, costruisce con evidenza una grande metafora che si pone di fronte a noi in cerca di soluzioni. Non si può guardare Anna come un qualunque film fantascientifico, semplicemente non soddisfa sotto questo profilo.
Anna è apparentemente un storia sulla potenza dell’amore: quello della madre, che si ammala e muore, e che si prodiga di lasciare alla piccola Anna (all’epoca di sei o sette anni) e al suo fratellino Astor (che appena cammina) ogni possibile istruzione per sopravvivere; e quello, potentissimo, di Anna verso il fratello, quando li ritroviamo pochi anni dopo, sopravvissuti, lei adolescente, e ne seguiamo le avventure. Ma è questa la chiave di lettura? Questa è una delle chiavi di lettura, reale e solida, ben visibile e ottimamente dispiegata, ma non basta. Non basta narrativamente, non riesce a sostenere da sola l’impianto fantasmagorico della relazione fra narratore e spettatore; anzi, a nostro parere limitarsi a questa sfaccettatura (importante, fondamentale) non spiega, non giustifica, non costituisce il messaggio principale che Ammaniti vuole trasmettere. Come nel classico canone narrativo (Eroe, Antagonista, Aiutante dell’eroe…), se l’Eroe è l’Amore (incarnato nel personaggio di Anna), chi può essere l’Antagonista?
È in questa risposta che si trova, a nostro avviso, il principale messaggio che aiuta a comprendere l’opera. Il contrario di Amore non è Odio, ma Amoralità. I bambini sopravvissuti al morbo, organizzati in bande o gruppetti, sono dei mostri di insensibilità, cinismo, opportunismo, sadismo efferato. Il mondo dei bambini è un incubo al pari di quello di Golding, col quale il paragone (al suo Signore delle mosche) corre immediatamente. Scriveva Golding: “L’uomo fa il male come le api il miele”; se questa è la condizione umana, negli adulti viene stemperata dalla cultura, la socialità appresa, il senso di realtà (i pochi adulti che appaiono sullo schermo, per lo più come incursioni nei ricordi di Anna, non sono né buoni né cattivi); nei bambini questi filtri, queste sovrastrutture, non sono ancora comparse, e domina il senso magico di potenza. I bambini di Ammaniti (come quelli di Golding) fanno il male non perché siano cattivi, ma perché sono amorali.
Entrando in questa prospettiva diventa assieme più semplice e più complessa la decodifica di Anna; più semplice perché, almeno, abbiamo trovato una strada; più complessa perché tale strada è ostica e rinvia, per esempio, all’estrema conseguenza della laicità di Ammaniti, che avevamo già pienamente colto nella sua precedente opera Il miracolo (Sky Atlantic, otto puntate, 2018; assolutamente imperdibile). Percorrendo questo sentiero vediamo allora come in Anna manchi del tutto la prospettiva religiosa (da intendere come ontologia morale); Dio non c’è mai, e se non fosse chiaro appare anche, fuggevolmente (molti indizi rilevanti compaio di sfuggita nella narrazione di Ammaniti), uno striscione lacero nella città ormai popolata solo di cadaveri: “Dio c’è stato”. La sottile blasfemia di Ammaniti (era palese e quasi sfacciata ne Il miracolo, è assai più contenuta e leggera qui) è la necessaria prosodia per narrare l’amoralità. Dove c’è Dio c’è amore, e c’è spazio anche per l’odio, che è il male, il maligno (che è in noi) da contrastare. Dove non c’è Dio non c’è giudizio morale, solo animalità, puro agire non necessariamente con senso compiuto. Il senso compiuto non c’è, nelle azioni dei bambini. Se non il senso del gioco, che può essere crudele e non ha altre finalità che il giocare stesso.
In questa follia cosmica infantile e adolescenziale, l’amore di Anna si staglia come disturbo, dissonanza, elemento distonico. Ammaniti ci dice – a noi sembra – che non bisogna essere buoni per contrastare il male, come insegna il messaggio cristiano, ma bisogna essere buoni per sconfiggere l’animale che è in noi. E “buoni”, in Anna, non significa amore fraterno astratto, ma azione. L’amore di Anna è disciplina, è rigore, è sacrificio, è consapevolezza di sé, è visione e compenetrazione. Niente di poetico e aulico, ma civiltà. Civiltà del senso di realtà, della speranza temperata e senza illusione. Anna sa perfettamente che il mondo è finito, e che lei stessa, tempo di crescere ancora pochi mesi, sarà destinata a morire, ma non ci pensa, non se ne lamenta, non è cruciale. L’importante è vivere bene il tempo di cui si dispone (gli dirà Pietro, l’amico adolescente coprotagonista, nel ruolo canonico dell’Aiutante dell’eroe).
Proviamo a riassumere. Sotto il profilo cinematografico il prodotto è ineccepibile; buona sceneggiatura e fotografia, ottima scenografia, attori adulti buoni e attori bambini semplicemente strepitosi. Sotto il profilo narrativo ci sono tutti gli ingredienti necessari: colpi di scena, soluzioni di problemi e avventura. Diciamo quindi che anche uno spettatore medio, poco interessato ai mal di testa interpretativi, si può godere la miniserie. “Godere” la miniserie è differente da “divertirsi” con la miniserie. Onestamente non ci si “diverte” guardando Anna. Se lo si guarda come pura storia la si gode. Se si fa un passo avanti, e si entra nel mondo di Ammaniti, cogliendone almeno parte dei molteplici particolari inquietanti, allora no: non ci si diverte. Anna inizia piantandovisi sulla bocca dello stomaco e resta lì, a cercare di farsi digerire, e si può cercare di digerirla (il vostro recensore ancora non c’è riuscito) solo a patto di seguire il flusso del rovello che Ammaniti impianta nel vostro cervello. Ogni tanto Ammaniti introduce fugacissime sequenze chiaramente non coerenti con la storia e col contesto, e sono con tutta evidenza volute: cosa ci vogliono dire? Qualcosa sul senso della realtà? Qualcosa sui limiti coi quali guardiamo quella che chiamiamo realtà? E poi la definizione di alcuni personaggi: l’ermafrodita, i gemelli (un’idea a nostro avviso geniale), il sopravvissuto – al momento – al virus che si sente prescelto dal Signore e offre la buona morte ai moribondi… Ciascuna di queste figure – che in una storia più “piatta” potevano essere omesse, o avere un ruolo marginale, offrono straordinarie incursioni da capogiro nella cosmogonia di Ammaniti, ciascuna offrendoci indizi per interpretare questo enorme puzzle.
In conclusione, sì: guardate Anna. Può piacervi moltissimo, o così così, ma non vi lascerà come eravate.
Claudio Bezzi