TERNI – Nell’aprile del 2013, Patrizia Fortunati scrive ed edita con Ali&no il suo libro d’esordio “Marmellata di prugne”. Un libro che ripercorre dall’angolo di visuale di una studentessa che ospita una bambina vittima del disastro di Chernobyl, quella immensa sciagura di cui il 26 aprile si è ricordato il 35° anniversario. Un libro che indaga in profondità psicologiche lo stato d’animo della bambina e che si sviluppa nella successive vicende di vita della stessa bambina che diventerà madre e quindi anziana, senza mai dimenticare quelle sue vacanze in Italia e riannodare I fili della sua sofferta e vissuta esistenza. La testimonianza della scrittrice nella sua esperienza diretta con una “vittima” del disastro di Chernobyl è ancora oggi viva, ma anche apportatrice di un profondo arricchimento umano.
“Sono passati trentacinque anni – scrive Patrizia Fortunati – dallo scoppio della centrale nucleare: se ne parla ancora, sì, ma troppo poco. Incalcolabili sono state e sono le conseguenze di quella tragedia, soprattutto in termini di vite umane. “Preghiera per Chernobyl”, della scrittrice bielorussa Svjatlana Aleksievic, premio Nobel per la Letteratura 2015, è una testimonianza cruda e vivissima e un documento storico preziosissimo, una lettura che tutti dovremmo fare per perpetuare la memoria di ciò che è successo affinché non accada di nuovo.
La mia è stata una delle tante, tantissime famiglie italiane che hanno accolto “un bambino di Chernobyl” per le cosiddette vacanze terapeutiche. Dal 1994 per dieci estati abbiamo aggiunto un piatto in più a tavola per una bambina (la prima volta che è arrivata non aveva otto anni) la cui unica “colpa” era quella di essere nata nel posto sbagliato, nel momento sbagliato: cento chilometri in linea d’aria da Chernobyl, l’anno del disastro.
Quella dell’accoglienza, tanto più di un bambino, è un’esperienza preziosa, tanto per chi viene accolto che per chi accoglie; una di quelle esperienze che cambia per sempre l’orizzonte.
Così è stato per me: condividere le mie giornate di studentessa universitaria, la mia camera, la mia quotidianità con una bambina di otto anni che non aveva mai avuto un paio di scarpe nuove e del numero giusto, che non aveva mai visto il mare né mangiato un gelato, ha fatto di me una persona diversa da quello che sarei stata se, ventisette anni fa, la mia famiglia non avesse aggiunto un piatto in più a tavola”.