FOLIGNO – Baluardo fiero della storia che racconta, sentinella di luoghi trasformati nei secoli, reperto da difendere e tutelare. C’è davvero tanta storia dietro al monumento funerario di età romana collocato lungo la Strada Regionale 316 dei Monti Martani, quella che conduce fuori Foligno in direzione di Fiamenga e Bevagna, all’altezza dell’incrocio con via Santo Pietro. Oggi distrattamente gli rivolgiamo poco più che uno sguardo, abituati come siamo alla sua presenza, senza probabilmente pensare per più di un secondo al suo ruolo e alla sua collocazione in quel punto. Una presenza neppure troppo solitaria, considerando che poco più avanti ce n’è un altro simile.
La tradizione combinata con gli studi topografici e con la ricerche archeologiche tende a identificare questo tratto della Sr 316 con la vecchia Flaminia, sia per deduzione indiretta suffragata da fonti letterarie e itinerarie, sia sulla base di reperti tornati alla luce lungo il percorso attuale, e ancor più per la presenza dei due monumenti funerari che ancora oggi documentano l’antico tracciato che collegava i centri urbani di Fulginiae e Mevania. Ad evidenziarlo è la relazione archeologica firmata da Giovanni Altamore in qualità di funzionario e da Marica Mercalli in qualità di soprintendente della Soprintendenza dell’Umbria che accompagna il decreto con cui è stata disposta un’area di protezione e tutela intorno a queste costruzioni romane. Guardarle è come compiere davvero un salto indietro nel tempo, scoprendo delle implicazioni e dei collegamenti architettonici, decorativi, urbanistici e tradizionali inimmaginabili per noi che oggi passiamo velocemente accanto alle due tombe romane. Un po’ per il loro aspetto attuale: resta in piedi solo una struttura di scapoli e spezzoni di pietra locale grigia rosa legati da malta di calce, ci spiegano gli archeologi della Soprintendenza umbra, “costituita da due dadi sovrapposti, il superiore segnato sulla faccia che dà sulla strada da una rientranza curvilinea e sui quali si imposta un terzo dado all’interno e aperto sul lato sud, ossia sul fronte rivolta alla strada”.
E’ tuttavia la ricostruzione fornita dai tecnici che fa apprezzare di più quel che oggi si osserva: “Il monumento, che doveva essere interamente rivestito di elementi lapidei regolari membrature architettoniche (colonne, semicolonne o pilastri) e probabilmente provvisto di iscrizione commemorativa del defunto e della gens di riferimento, si ascrive ad un tipo di lunga evoluzione che conosce numerose declinazioni locali, la cui caratteristica unificante è costituita dal notevole sviluppo in altezza derivante dalla sovrapposizione di una serie di corpi con preciso significato strutturale e specifica attribuzione funzionale, distinguibili oggi da soluzioni di continuità del nucleo in cementizio, che troverebbero piena chiarificazione e immediatezza di lettura solo in presenza delle finiture di rivestimento”. Un’analisi puntuale che consente di andare molto lontano: questa costruzione di tale evidenza monumentale trova un modello ispiratore e una matrice genetica in una tipologia diffusa in ambiente microasiatico da tradizioni locali – con probabile centro di elaborazione originarie nella Licia persiana – alla fine del IV secolo avanti Cristo, in cui si leggano – argomentano gli archeologici della Soprintendenza – le tre componenti strutturali e funzionali sovrapposte del basamento, del podio e dell’heroon in forma di sacello popolato di statue. Modello che viene recepito trovando impiego e declinazione caratteristica in Occidente, spesso nella fase iniziale con il coinvolgimento diretto di maestranze importante, nell’ambito di un fenomeno di diffusione globale della cultura greca, innescato dalla politica e dalle imprese di Alessandro il Macedone, come sottolineano Giovanni Altamore e Marica Mercalli. Il monumento posto all’incrocio con via Santo Pietro (ma anche quello che si trova poco più avanti) risulta di difficile datazione per la mancanza del rivestimento e di altri materiali, anche se tuttavia gli studiosi lo ascrivono prudenzialmente ad un momento tardo della storia del modello: “Il dado superiore – si legge ancora nella relazione – appare conformato a cella con semicolonne laterali, di cui si leggerebbe un accenno della sagoma, mentre la terminazione, da postulare perché perduta, sarà da connettere forse ad esperienze e declinazioni seriori, come potrebbe essere la piramide, più che ai modelli ellenizzanti della cornice e del frontone templare”.
La mente corre lontano nel leggere le minuziose descrizioni e le implicazioni di carattere stilistico. Con un’informazione ulteriore: recenti indagini archeologiche condotte dalla Soprintendenza nei pressi della tomba romana hanno consentito di riportare alla luce una serie di strutture in muratura di ciottoli di fiumi, fondante su un piano di campagna fortemente rasato e compromesso da arature secolari, e costituite da un muro longitudinale. Strutture analoghe rinvenute nel sistema viario italico in età romana con lo scopo di costituire un contenimento del rilevato della strada antica e che quindi – chiosano gli archeologi – sarebbero a localizzare, almeno in quel punto, in corrispondenza del tracciato della moderna Sr 316 e le cui stratigrafie sarebbero pertanto conservate sotto il manto di asfalto”. Insomma davvero la storia passa per qui. E quando i nostri occhi intercettano i resti dell’antica tomba romana, proviamo per un minuto a pensare come dovevano essere quei luoghi che oggi percorriamo distrattamente.