PERUGIA – Rovistando nel cassetto dei ricordi, salta fuori dallo scomparto “emozioni” la memoria di una indimenticabile serata in compagnia dell’arte e della musica di Michel Petrucciani, nell’anno della grande festa per i primi venti di Umbria Jazz. Era il 1996, Petrucciani era già stato più volte inserito nei programmi di Umbria Jazz e sempre aveva ottenuto grandi consensi di pubblico e critica. Ma fu quello della serata in piazza IV Novembre, in un concerto gratuito in piano solo, il test più difficile e impegnativo. Al contrario dei timori degli organizzatori di un concerto forse dotato di poco appeal popolare, Petrucciani riuscì nella magia di radunare nella piazza stracolma, un pubblico di circa ventimila persone, letteralmente stregate da quanto il piccolo-grande pianista riuscì a far scaturire dalla tastiera del suo Fazioli lungacoda. Voci e rumori della piazza nel giro di qualche minuto e subito all’accenno delle prime note, scomparvero come d’incanto e nella piazza regnò soltanto un silenzio surreale, infranto soltanto dal fraseggio dalle tinte “lunari” di Petrucciani. Una serata che è rimasta nella storia di Umbria Jazz a suggellare il talento e il genio del grande pianista. Che tre anni più tardi si accomiatò dal suo pubblico lasciando un vuoto incolmabile in tutti quelli che ne riconobbero la sua grande umanità in grado di includere tutto, ma soprattutto l’unicità di un’idea di bellezza e armonia.
Di artisti maledetti è costellata la storia della letteratura, delle arti, della musica: in grandi salti in avanti e indietro nel tempo basti citare Caravaggio, Baudelaire o Charlie Parker. Maledetti e geniali, tutti oltre i limiti dell’umano, eppure straordinariamente affamati di vita e di emozioni, intenti nel cercare di cogliere l’aspetto emozionale del tempo, quell’hic et nunc che sin da ere immemori dà significato al nostro esistere nello spazio e nel tempo (secondo la definizione di Heidegger). L’essere maledetti e reietti, amati e odiati spesso sono condizioni sinonimiche di un’alterità, ciò che in filosofia si oppone all’identità come sistema che compone un paradigma di ciò che è uguale e si ripete. In altri termini, questa volta psicologici, ciò che oppone il pensiero convergente (su cui si stabiliscono forme di pensiero condivise) a quello divergente inerente con frequenza ad un’alta capacità di creatività. Diceva Einstein che “la creatività è l’intelligenza che si diverte”: la musica in questo senso rimane la massima espressione dell’intelligenza creativa che pone i suoi presupposti su un imprescindibile aspetto ludico, ovvero quel piacere sotteso nell’eseguirla e nel crearla. Creatività, dunque, ma anche gioco, pensiero divergente e… resilienza. Resiliente, giocoso, affamato di vita, divergente, emotivamente coinvolgente è stato, e ai massimi livelli, Michel Petrucciani, il grande pianista dalle “ossa di vetro” che a dispetto del suo aspetto fisico, o forse proprio grazie ad esso, è riuscito a coinvolgere nei suoi vorticosi fraseggi ad alta frequenza di emozioni, migliaia e migliaia di ascoltatori in tutto il pianeta. Questo ultimo scorcio del 2019 rappresenta anche l’ultima occasione per celebrarne, nel ventennale della scomparsa, il suo genio e la sua arte, peraltro ricordato anche in un analogo articolo recentemente pubblicato per il Gruppo Corriere. Il genio di un piccolo-grande uomo, 97 centimetri di altezza e 27 chilogrammi di peso, dotato dell’idea che il suo talento si sia generato proprio a causa della sua malattia. Ciò che normalmente è considerata una condizione di minorità, da Petruche – come lo chiamavano i suoi estimatori francesi – era riconosciuta come una possibilità che gli era stata offerta dal destino: la sua sindrome che lo condannò a una forma di nanismo, fu anche quella che gli permise di non distrarsi – come lui stesso ammise – dallo studio della musica, tanto che a soli 13 anni eseguì il suo primo concerto in pubblico. Resilienza, gioco, creatività, ma nel caso di Petrucciani anche una grandissima anima che riusciva ad annettere tutto e a rilasciare questo tutto in una modalità comunicativa e di coinvolgimento al di là del consueto. Proprio la chiarezza “discorsiva” del suo fraseggio che raramente si allontana dalle linee melodiche e il tocco delicato e sottile che accenna a un swing appena suggerito, Michel Petrucciani, pur dotato di un eloquio musicale profluviale, rimane nell’ambito delle suggestioni dai colori sfumati, mai decisamente definiti. Qualcuno cercò di dare una spiegazione tecnica al suo talento asserendo che le sue dita, a causa della sua malattia, erano dieci volte più flessibili e quindi sensibili rispetto a quelle di un pianista ordinario, ma questo da solo non basta a spiegare ciò che rende la sua musica unica e riconoscibilissima: “Le persone non comprendono – disse Petrucciani al termine di un concerto – che per essere un essere umano non è necessario essere alti un metro e ottanta. Ciò che conta è ciò che si ha nella testa e nel corpo. Ed in particolare ciò che si ha nell’anima”. Quell’anima che incluse in sé prima di tutto la bellezza e la vita, ma anche la sua malattia e le enormi sofferenze che ne derivavano. Spesso Petrucciani subì fratture agli arti e al bacino durante l’esecuzione di concerti e, nonostante tutto, riuscì a concluderli tra lancinanti dolori. Al termine di 36 anni di vita, a causa delle complicazioni sorte da una polmonite a New York, lasciò un incommensurabile vuoto nel mondo del jazz e in tutti quelli che ne riconobbero un talento impareggiabile.