SPOLETO – Una vita normale. Forse è solo una vita normale che cercano tutti quelli che sono scappati e ancora scappano dalle guerre. “Oggi ho trovato un momento di pace in una chiesa, mi sarebbe piaciuto vivere questa tranquillità, vivere cose normali ma mi è toccato vivere in un paese difficile”. A parlare da Spoleto era Milad Amin, direttore alla fotografia e uno dei protagonisti del film Still Recording che ieri sera 15 settembre è stato proiettato al Cinema Sala Pegasus nell’ambito di Incontri d’Autore. Il film, vincitore della 33ma settimana internazionale della critica alla 75ma Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, vedeva la regia di Saeed Al Batal e Ghiath Ayoub, più di 450 ore di materiale girate tra il 2011 e il 2015 in Siria sotto l’assedio del regime di Bashar al-Assad. “Ho perso parte della mia libertà mentre la cercavo, nel film c’è sangue ma anche ricordo dei miei amici che sono morti mentre giravamo il film, ma non voglio perdermi”, dice mente leggiamo nei titoli di coda che il film reportage è stato dedicato alle vittime e ai martiri rimasti uccisi durante le riprese.
Per Milad il “cinema è arte che dice la verità” in contrapposizione ai media che invece “sono propaganda”, in una visione occidentalizzata di ciò che per anni si è trasmesso al mondo. Fin dalla prima guerra del Golfo la CNN come unica emittente che poteva trasmettere la testimonianza di chi stava lottando decise di filmare immagini senza notizie, con i giornalisti appollaiati sopra i tetti di Baghdad che della guerra sentivano solo l’odore, amplificando così la distorsione di quel che realmente stava accadendo.
E allora lui insieme ai suoi amici, all’età di poco più di vent’anni, con la telecamera in mano comincia a riprendere quella che è la loro vita quotidiana a Damasco, a Douma, a Jobar, a Ghouta (anche dopo l’attacco chimico del 2013, ndr.) a Idlib. Filmano la guerra tra le milizie di Assad e i ribelli dell’Esercito Libero Siriano, filmano ragazzi che prima ascoltavano la musica come molti loro coetanei e poi imbracciata l’artiglieria si sentirono costretti ad arruolarsi e a prendere posizione per contrastare il regime. Vedi quel ragazzo che prima ascoltava la musica tranquillizzare la mamma al telefono, dire che da lui va tutto bene, e poi ritrovarsi a scavare un buco nel muro per guardare i cecchini che arrivano. Oppure si vede un altro ragazzo che è un atleta e continua ad allenarsi in mezzo alle macerie dei palazzi sventrati, disarma la sua speranza: “Lo sport deve continuare, la vita deve continuare”.
Milad studiava Belli Arti a Damasco ma un giorno decise di raggiungere Saeed a Douma, una delle città assediate. “Facevo parte di un movimento pacifista che non stava con nessuna fazione, ma nel 2012 ci siamo chiesti qual’era la nostra posizione. A Douma tutti se ne stavano andando e bisognava fare qualcosa, abbiamo risposto con i graffiti e lo studio”. Nel film distribuiscono i colori ai bambini, a loro almeno cercano di strappare normalità sotto i bombardamenti. “La videocamera è il modo in cui siamo abituati a vedere le cose. Non volevamo il conflitto, filmavamo i ribelli e lo facevamo per i nostri figli. Non so come si arma un’arma vera ma sapevamo e la cosa bella di una conoscenza è che non possono togliertela”, spiega ancora Milad al pubblico della Sala Pegasus. Oggi, dopo essere arrivato nella zona franca del Libano, è un rifugiato in Europa. Continuare a filmare per istinto, perché la storia andava raccontata proprio in quei luoghi di morte ma anche di ricerca della libertà. Filmare città che tutti loro amano profondamente e dalle quali sono stati obbligati a scappare. “Nel mio paese ci sono russi, turchi; un americano può camminare nel mio paese e io no… Il mio dovere è quello di continuare e dire che questo è sbagliato, – conclude Milad – l’obiettivo della mia vita quotidiana è la pace”.