Riceviamo e volentieri pubblichiamo, inserendolo nella nostra rubrica Dentro lo Stivale che suggerisce inizitive, mostre e quant’altro accade di particolare e interessante oltre i confini umbri, le osservazioni di Vanni Capoccia sulla mostra dedicata a Edvard Munch in corso a Milano a Palazzo Reale dal titolo “Munch. Il grido interiore” visitabile fino al 26 gennaio 2025.
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A Milano il grido interiore di Munch
di Vanni Capoccia
L’iniziazione di Munch all’arte avviene nella capitale norvegese Christiania (dal 1925 diventerà Oslo) in un gruppo di artisti bohemiens che contestavano una borghesia cittadina puritana e cupamente protestante. Un conflitto che descriverà in uno dei suoi quadri più conosciuti nel quale ricchi borghesi si muovono come degli zombie dallo sguardo vuoto e gli occhi sbarrati in una delle strade più frequentate di Christiania mentre un uomo nell’ombra va nella direzione opposta. Quell’uomo che si allontana è probabilmente proprio Edvard Munch, artista solitario e introspettivo che più di tutti dà volto alla psiche moderna, e se nel suo corpus di opere è costantemente presente l’autoritratto, compreso l’autoscatto fotografico, non è certo per vanità ma come mezzo di autosservazione e autoanalisi.
Dalla propria immagine e dalle altre che dipinge fa emergere il suo mondo interiore rendendolo visibile a sé stesso e agli altri andando alla ricerca di un’arte in grado di restituire il dolore e l’angoscia del vivere: “voglio rappresentare creature che respirano, sentono amano e soffrono” appunta nel suo diario. Corpi e anime che non s’incontrano mai come si vede nella rappresentazione del suo drammatico rapporto con Tulla Larsen finito con un colpo di pistola, nella discinta Madonna il cui bambino sembra un feto respinto, nelle due ragazze di bianco e di rosso vicine ma incomunicabili.
E per la singolarità e la sostanziale solitudine nella quale Munch vive e si esprime non ha senso etichettare in qualche movimento artistico la sua arte sebbene sia stata fondamentale per il movimento espressionista e la Secessione di Berlino. D’altronde com’è possibile incasellare in una corrente artistica l’opera di un genio solitario che tra introspezione e sgomento dipinge tele dai tratti incolti e quasi incompiuti senza mai guardare ma scrutando con cupa dolorosa intensità ciò che è dentro di sé, interrogando e ascoltando le proprie inquietudini.
Munch dipinge la disperazione e la sofferenza che ognuno nella vita almeno una volta ha provato.
Un percorso umano e artistico nel dolore prolungatosi fino al 1944 quando muore mentre si profilava la fine di una guerra atroce e del nazismo, il regime che al suo avvento confiscò 82 sue opere perché rappresentazione dell’arte degenerata.
Percorso in parte visibile a Palazzo Reale di Milano con la mostra “Munch, il grido interiore” aperta fino al 26/1/2025. Un centinaio di suoi lavori tra i quali manca “L’urlo di Munch” il suo quadro più iconico e tra i più simbolici dell’arte di tutti i tempi, a ricordarlo c’è una delle litografie con le quali Munch lo ha ripetuto. Forse è un bene che non ci sia altrimenti ci saremmo tutte e tutti trovati accalcati davanti a lui per poter dire “io l’ho visto” mostrando la sua foto nel “telefonino”. Non c’è ma lo si sente per tutta la mostra perché quell’urlo silenzioso viene dall’interno di ogni quadro ed è più forte di ogni altro rumore: Un urlo interiore, livido, sordo, violento che entra in ogni cellula del corpo.
Lo si vede in “Malinconia” e “Disperazione” dov’è manifesta la volontà di esprimere in pittura lo stato d’animo di un uomo chiuso nel suo avvilimento in un paesaggio che con le sue tinte ondulate e solforose pare emanazione del suo tormento.
È tra i familiari intorno al letto di morte della malata, con Munch riconoscibile in piedi al centro, impietriti da un dolore talmente forte che li attanaglia dentro una solitudine che rende incapaci di condividerlo con un abbraccio, un gesto, uno sguardo compassionevole e solo così un fatto talmente privato diventa il tema del dolore in senso assoluto. Lo si sente in “Tra un letto e l’orologio” angosciante autoritratto della vecchiaia dove Munch con gli occhi che sembrano già chiusi nella morte sta dritto, stecchito tra un orologio verticale e il letto orizzontale, simboli tragici che scandiscono il tempo e la fine della vita mentre la luce da dietro disegna davanti ai suoi piedi una croce su un pavimento che sembra una pietra tombale.
Un urlo che si attenua quando in un momento di serenità come stelle che emergono dall’oscurità tre ragazze appoggiate alla balaustra seguono i loro pensieri osservando il fiume che scorre.
E di quadro in quadro tra la cupa intensità dei soggetti ci si chiede da cosa si allontanino o da cosa si isolino quelle persone, cosa gli sia successo e cosa sia successo in luoghi dove un’ombra angosciante si staglia su un muro.
Cosa abbiano visto quegli occhi a volte sbarrati, altre spenti, altre ancora ridotti a spettrali buchi neri.
Accade perché pochi pittori hanno scavato dentro di sé e messo a nudo il proprio animo come Munch nei suoi quadri. Per questo mettono in difficoltà: perché sono degli specchi che non chiedono di essere guardati ma di fare come lui: di scavare dentro noi stessi perché è lì la risposta ai dubbi, ai turbamenti, alle angosce che provocano. Ed è per questo che alla mostra milanese su Munch si sente che la visita inizi veramente una volta usciti da essa.
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Ultimo ingresso un’ora prima. Lunedì chiuso.