SPOLETO – Qualunque storia narrata, in un libro come in un film, può assumere caratteristiche simili a quelle che abbiamo o stiamo vivendo proprio perché create da persone come noi. Proiettare noi stessi all’interno di un volume sembra impegnativo, mentre farlo con l’aiuto di immagini in movimento appare più immediato.
Ne avremo certezza sabato 13 luglio a partire dalle ore 10.30 a Spoleto, alla sala Pegasus, con la settima edizione della rassegna cinema e psicoanalisi a cura di Claudia Spadazzi ed Elisabetta Marchiori della SPI (Società Psicoanalitica Italiana).
“Il cinema usa un linguaggio molto simile a quello del sogno. È una rappresentazione, con la differenza che lì c’è un regista in carne ed ossa e nel sogno il regista è il sognatore. Tant’è che poi molto spesso i nostri pazienti ci dicono ‘adesso le racconto un film’ invece di dire ‘adesso le racconto un sogno’. Quindi c’è tutto un aspetto di grande affinità nell’utilizzo di questo registro iconico delle immagini. L’idea della rassegna nasce dalla possibilità di dare una chiave di lettura, magari di aspetti che si possono intuire nella visione del film ma che magari possono necessitare di una spiegazione e una visione psicoanalitica, si danno spunti di riflessione” mi dice la dottoressa Spadazzi, raggiunta al telefono.
Dopo una breve introduzione, verranno infatti proiettati tre film – con l’interazione di esperti cinematografi (Mario Sesti, Fabio Ferzetti e Roberto Lazzerini), Graziella Bildesheim per l’industria audiovisiva e il commento di psicoanalisti dello SPI (Paolo Boccara, Manuela Fraire e Giuseppe Riefolo) – alle 11 “Ladri di bicilette” di Vittorio De Sica, alle 16 “Jules e Jim” di François Truffaut e alle 18.30 “Gli uccelli” di Alfred Hitchcock, ad ingresso libero.
La rassegna quest’anno è intitolata ai classici e ruota sul rapporto intrinseco formatosi tra il cinema e la psicoanalisi, nate più o meno nello stesso periodo. “Ci rifacciamo qui alle Lezioni americane di Calvino e quindi alla letteratura, quand’è che un libro si può dire un classico ed è molto interessante quello che Calvino dice quando tocca delle corde molto profonde, quando non ha mai finito di dire quello che ha da dire, quando contiene all’interno tutti gli altri libri e via dicendo. In questo caso abbiamo pensato: si può mutuare questo concetto al cinema? Ci sono dei film che non hanno mai finito di dire quello che hanno da dire? Ci sono dei film che contengono al loro interno molti altri film? Ci sono dei film che ci toccano, effettivamente, aspetti profondi dentro di noi? Sicuramente questi che proiettiamo che sono poi dei classici, restaurati, questa funzione la fanno” riprende la Spadazzi.
Una volta che il nostro cervello capta e riceve determinati stimoli esterni, grazie all’esperienza comincerà ad elaborare quelle informazioni codificandole. Il sistema nervoso ne impone una precisa organizzazione in modo tale che la struttura mentale data dalla percezione visiva possa rielaborare gli input in modo automatico. Ecco perché nell’analisi e nella ricostruzione di scene visive, trattandosi di realtà o di finzione, le immagini creano connessioni con l’inconscio dello spettatore, in una sorta di dialogo tra energie trasmesse da un punto a un altro (trasduzione). Anche se, trattandosi di film, non tutti gli effetti prodotti possono dirsi voluti. “Io credo” commenta la psicoanalista, “che il creatore di un’opera d’arte non pensa mai all’effetto che susciterà nello spettatore o nel fruitore dell’opera. In realtà sono dei contenuti interni del regista che poi esprime attraverso questo mezzo artistico, ma io non credo che ci sia mai nessun pittore, poeta, scrittore che pensa al suo pubblico. Se è un artista vero, fondamentalmente è l’emersione di contenuti inconsci dell’autore che poi ci appare nell’opera”.
Di fatto, “adesso sono anche usciti degli studi molto interessanti, neuroscientifici, che ci fanno vedere come nella visione di un film una parte del nostro cervello è consapevole del fatto che sta seduto nella sala, che ci sono gli altri spettatori e sta in una situazione, diciamo, sociale” risponde la Spadazzi alla domanda, infine, su come il film possa parlare all’inconscio, “Un’altra parte del cervello, invece, si identifica proprio con quello che sta vedendo come se lo vivesse. Questo è il motivo per cui poi lo spettacolo è capace di suscitare delle emozioni. In un film horror lo spettatore ha paura, per quale motivo? Perché in una parte della sua mente sta vivendo la situazione che stanno vivendo i protagonisti del film. Quindi, il film parla all’inconscio e parla ad aspetti neurologici del cervello, c’è proprio un’attivazione di aree cerebrali come se la persona stesse all’interno della pellicola”.