Su Vivo Umbria abbiamo pubblicato notizie riguardo l’apertura del Festival Federico Cesi che fino al 2 settembre riempirà di musica Trevi, Spello, Acquasparta, Sangemini, Narni e Amelia. Una rassegna indubbiamente interessante che offre anche l’occasione per riflettere su questa figura di scienziato e naturalista fondatore dell’Accademia dei Lincei e duca di Acquasparta. Già, perché nel 2003 proprio per i quattrocento anni dell’Accademia dei Lincei, la Filarmonica Cesana (la cui rassegna musicale solitamente si svolge in ottobre a Cesi) volle ricordare il principe con la pubblicazione di un libriccino, a cura di Francesco Feliciani, che racchiudeva al suo interno due scritti, testi tratti da una conferenza che si tenne a Cesi in quel Natale. Mentre il professor Dario Antiseri illustrò nella prefazione la rivoluzione scientifica di quel personaggio, della personalità invece parlò il giornalista Sandro Tatti (1919-2011) il quale intitolò il suo breve saggio al principe e all’Accademia.
Il Tatti che nel 1964 aveva vinto il premio Saint-Vincent per il giornalismo, redattore capo centrale alla RAI per molti anni ai servizi parlamentari e alla Tribuna politica, da Roma si era da tempo trasferito ad Acquasparta dove infine si spense. Ricordo ancora, avendo quel lavoro tra le mani, quale gioia avesse avuto nello scrivere e nel documentare la figura dello studioso. Il catenaccio recitava così: “Nel 1603 il giovane Federico Cesi e tre suoi compagni amanti del sapere dettero vita all’Accademia dei Lincei, primo geniale tentativo di organizzazione del lavoro scientifico dell’età moderna”.
Il testo sottoscrive nove capitoli dove la storia del Cesi, mi sembra con una certa familiarità, è spogliata e descritta. A noi, ritengo, per quel che concerne la sua vita, può riguardarci quello intitolato a suo nome.
“Federico fu un autodidatta. ‘Vivo solitario e da eremita’ – scriveva di sé a diciotto anni – ‘rinserrato nella mia cella; fuggo ogni conversazione di profani e anche ogni vano piacere. Attendo agli studi col massimo fervore: i miei maestri sono perlopiù i libri; maestri di voce sono il Padre Alessandro e l’Arabico’.
Il Padre Alessandro era il precettore che forse lo seguiva dall’infanzia, l’Arabico era probabilmente un prete maronita o libanese che gli insegnava lingua e letteratura araba. Verso i trent’anni, vincendo il quasi ascetico attaccamento agli studi, per poter meglio far fronte alle amarezze domestiche e ai doveri della dinastia, Federico si decise a sposare Artemisia Colonna. La giovinetta, appena quattordicenne, poco dopo le nozze si ammalò e in capo a due anni morì.
Isabella dei duchi Salviati fu la seconda moglie, che gli diede quattro figli. Federico aveva lasciato Roma e si era ritirato ad Acquasparta, dove contava di potersi dedicare con tutte le forze alle sue ricerche: il museo naturalistico, la biblioteca, il giardino botanico, oltre ad una sorta di zibaldone – migliaia di pagine di appunti, osservazioni e progetti di opere scientifiche – ne furono il frutto.
Ma le preoccupazioni che sempre gli venivano per la condotta dissoluta del padre; le discordie coi fratelli per questioni di interesse; i dispiaceri per la malferma salute della moglie e per la perdita dei due figlioletti maschi, tanto desiderati, tutto questo, unitamente all’assiduo lavoro intellettuale, doveva negli anni fiaccare le sue energie e minare la sua salute così da portarlo alla morte il giorno 1° agosto del 1630. Aveva quarantacinque anni. Fu sepolto ad Acquasparta, nella chiesa, ora parrocchiale, di Santa Cecilia, dove i suoi resti sono ancora, sotto la vecchia targa di bronzo con la scritta Federico Cesi Principe dei Lincei.
Francesco Stelluti, l’amico fraterno che gli era rimasto vicino fino all’ultimo, dette la notizia, il giorno dopo, al più illustre dei Lincei, Galileo Galilei, a Firenze: ‘Grandissimo torto’ – scriveva – ‘gli ha fatto la natura a dargli così poca vita… Nostro Signore Iddio lo abbia il gloria, non avendo mai avuto il povero signore un’ora di bene’.
Più tardi, in una lettera all’amico fiorentino Curzio Picchena, Galileo stesso lodava in Federico Cesi ‘una santità di vita, una mente angelica e una indicibile soavità di maniere nobilissime’.
Ma già una decina di anni prima, un dotto tedesco, Gaspare Schopp (italianizzato in Scioppio), vicino a tutti i grandi uomini del tempo – da Giordano Bruno, a Tommaso Campanella, a Galileo – in una serie di profili di letterati viventi a Roma, redatti per il pontefice Urbano VIII, coglieva in Federico Cesi ‘un ingegno di mirabile pieghevolezza ad apprendere qualsiasi disciplina scientifica e di raro precipuo acume nell’indagare le cause delle cose naturali… Quando il Cesi discute d’improvviso nelle adunanze dei dotti, fa stupire gli uditori con il suo sapere non meno che per la grazia ed il brio del discorso’.
Noi, qui, da Cesi, non possiamo fare a meno di pensare chissà quante volte, da bambino, giovinetto e poi uomo maturo, proveniente da Roma o da Acquasparta, chissà quante volte Federico era salito qui, sulla costa del monte S. Erasmo, per rivedere – come apprendiamo dalle sue lettere – gli antichi domini della sua famiglia e per godere dalle finestre del palazzetto semplice e rude dei suoi avi, uno dei più vasti e luminosi e dolci panorami del paesaggio umbro”.